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Una delle giovani prostitute di Torino: «Mi vendevo a 100 euro per pagare le bollette»

«Chi dice che lo facevamo per comprarci le borse griffate o per fare la bella vita, è una persona cattiva. Per ballare in modo ammiccante e strusciarci sui clienti prendevamo 40 euro a sera, per fare sesso 100. La maggior parte di noi aveva bisogno di soldi per vivere, veniva da famiglie disagiate».

Luisa (è un nome di fantasia) ha quasi vent’anni, e tre anni fa faceva parte delgiro di prostituzione di giovani e giovanissime ragazze smantellato dalla squadra mobile di Torino. Quattro persone, che si occupavano di procacciare i clienti, devono rispondere di sfruttamento della prostituzione, anche minorile.

Tra gli indagati nella stessa inchiesta, altri quattro, tra cui Mario Ginatta, figlio 36enne dell’imprenditore Roberto Ginatta, a capo della Bluetec, azienda del gruppo piemontese del settore automotive Metec Sola, che ha rilevato l’ex impianto Fiat di Termini Imerese.

Come è entrata nel giro?
«Volevo fare la ragazza immagine: mi piaceva ballare e vedevo tante mie coetanee guadagnare soldi con le serate in discoteca. Avevo un’amica che faceva la “cameriera sexy”: si spogliava, ma mi diceva sempre che non c’era nulla di cui vergognarsi: nessuno la toccava. Bastava ballare in modo un po’ più spinto».

È stata lei a presentarle chi l’avrebbe fatta “lavorare”?
«Sì, mi ha fatto parlare con un uomo che mi ha detto: “Se vuoi lavorare, ti trovo qualcosa”. Una sera mi ha chiamato, mi ha fatto andare in un bar dove, al piano interrato, si cenava. Mi ha detto che avrei dovuto ballare come una ragazza immagine fa in discoteca, che non dovevo fare nulla di compromettente. Così ho iniziato».

E come è andata?
«Ho notato subito che c’erano solo uomini e che la maggior parte delle altre ragazze si sedevano in braccio ai clienti e flirtavano con loro. Però io quella sera avevo proprio solo ballato. Poi l’uomo che mi aveva procacciato quel lavoro mi ha telefonato di nuovo, dicendomi che mi avrebbe portato in un altro locale, ma che dovevo vestire in modo più audace».

Che cosa è successo?
«I titolari mi hanno spiegato che si trattava di un ristorante diverso dal solito e che bisognava sedersi sulle gambe dei clienti, giocare con loro. Ma mi hanno detto di prendermi il tempo di cui avevo bisogno, di non sentirmi forzata. Io cercavo di comportarmi in modo furbo: non mi strusciavo, non mi avvicinavo troppo. Mi sedevo accanto ai clienti e cercavo di essere simpatica e solare».

Senza andare oltre?
«Qualcuna delle mie compagne sì: andava fuori con imprenditori, industriali. Veniva pagata di più di noi, che ci limitavamo a ballare in modo ammiccante e che prendevamo 40 euro a sera. Però, quando quel ristorante ha chiuso, e ho cominciato a lavorare in un terzo locale, anche io ho accettato di fare sesso nel privé. Nessuno mi ha costretta, ma mi hanno fatto capire che, se non ci fossi stata, avrei perso l’opportunità di continuare a lavorare con loro».

Quanto la pagavano?
«Per il privé, 130 euro, di cui 30 andavano ai titolari del locale. Non avrei dovuto: dovevo accontentarmi dei soliti 40 euro a sera. Lavorando dal martedì al sabato, totalizzavo 800 euro al mese: mi sarebbero bastati quelli, ma avevo paura di perdere il lavoro, a non concedere mai il privé».

Chi erano le altre ragazze?
«Ragazze normali, simpatiche, con cui avevo anche stretto qualche superficiale amicizia. Poche facevano questo lavoro perché gli piaceva. La maggior parte veniva da famiglie disagiate, con problemi economici. Molte erano straniere, soprattutto romene, molte erano mamme che cercavano un modo di mantenere i loro figli. Ci davamo forza l’una con l’altra: ci dicevamo che non stavamo facendo nulla di male, che eravamo coraggiose».

I suoi clienti sapevano quanti anni aveva?
«Alcuni me lo chiedevano. Altri davano per scontato che fossi maggiorenne: l’uomo che ci procacciava il lavoro ci forniva anche documenti falsi da consegnare ai titolari dei locali. Ad altri clienti, invece, sembrava non importare proprio. Dicevano: “Ma sei giovane, che ci fai qua dento?”. Ma se gli piacevi non si fermavano di fronte a nulla».

Le chiedevano anche sesso non protetto?
«Molti sì: erano disposti anche a pagare 50, 100 euro in più. Io, però, non ci stavo, e anche i titolari dei locali si arrabbiavano molto con chi faceva questo tipo di richieste. Poi c’erano altri clienti che non volevano il sesso: parlavano dei loro problemi, di famiglia o di lavoro, si confidavano e, quando avevano raccontato tutto, ci pagavano pure».

Che tipo di persone frequentavano quei locali?
«C’erano tantissimi anziani, ma altrettanti giovani, spesso figli e nipoti di persone ricche e importanti. Io accettavo di fare sesso solo con i ragazzi, mai con i vecchi. Ci ridevo e scherzavo. Alcune delle altre ragazze accettavano anche inviti in barca, in hotel o in ville lussuose: in quelle occasioni guadagnavano davvero tanto. Io non ci sono mai andata: non avrei saputo come giustificarmi, a casa».

Perché ha accettato di entrare nel giro?
«Perché la mia famiglia aveva enormi problemi economici e io volevo dare il mio contributo. Ero felice di poter essere io a pagare la spesa o le bollette. A me i soldi servivano per questo. Ma sono pentita, eccome».

Lo rifarebbe?
«Mai. Sono soldi sporchi, e io mi sento ancora sporca. Al pari di uno spacciatore di droga. È una vergogna: adesso che sono cresciuta me ne rendo conto, ma in quel momento non pensavo alle conseguenze. Adesso sto vivendo una vita onesta, e sto cercando di dimenticare. Ma se solo avessi avuto una madre o un padre che mi avessero detto che era sbagliato, forse non l’avrei fatto».

Come ne è uscita?
«Avevo litigato con l’amica che mi aveva coinvolto nel giro. Per vendicarsi, lei ha raccontato quello che facevo a diverse persone, e anche il mio fidanzato è venuto a saperlo. Si è arrabbiato moltissimo, ma poi mi ha capito, e mi ha perdonato. Mi ha aiutato a scrivere il curriculum. Mi ha fatto capire che non avevo bisogno di vendere il mio corpo, che c’era un mondo, lì fuori, dove avevo anche io il diritto di vivere con dignità».

FONTE: https://www.vanityfair.it/news/approfondimenti/2018/03/27/torino-prostituzione-minorile-testimonianza

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