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La realtà non esiste, è (quasi) tutta un’illusione

I sensi sbagliano spesso. E le nostre percezioni sono al novanta per cento costruzioni del cervello. Questo, dice il neurobiologo Beau Lotto, ci serve a vivere. Ma si può anche andare oltre


L’illusione è la nostra realtà. Perché del mondo là fuori vediamo il poco che i nostri occhi sono in grado di vedere e ci aggiungiamo quello che il cervello vuole farci credere. Il risultato è una rappresentazione delle cose che non è reale per niente. Ma c’è una buona notizia: capire come e perché questo accada permette di arrivare a rappresentazioni nuove, più ampie e versatili. Di fare cioè quello che un tempo avremmo definito “espandere i confini della mente”. Di tutto questo scrive il neurobiologo inglese Beau Lotto nel suo sorprendente saggio dal titolo Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo(Bollati Boringhieri), in cui comincia col farti giocherellare con le illusioni ottiche e finisce per parlare di politica, rispetto dell’altro, pedagogia, vita di coppia e creatività.
Lotto da anni si dedica al tema nel suo laboratorio alla University of London. Ma, spiega, proprio perché è stato capace di espandere i confini della mente, oggi sperimenta anche in uno «spazio di ricerca sulla percezione pubblica» nonché «primo studio di neurodesign». Lo ha chiamato Lab of Misfits (più o meno “laboratorio dei disadattati”) ed è un posto dove si incrociano coreografi, musicisti, attori, informatici, neuroscienziati, e dove per esempio è stata realizzata un’app che traduce in suoni le immagini e può comporre musica a partire dai colori di un viso. Tra l’altro, è un laboratorio itinerante: è nato a Londra, ma oggi si trova a New York.

Forse è per la stessa storia dei confini della mente che per parlare con Beau Lotto nei giorni dell’uscita del suo libro in Italia lo devi raggiungere in Sudafrica, alternando quattro modalità di telefonata ad altrettante di scrittura, e che per spiegarti che cosa ci faccia laggiù ti dia tre spiegazioni. La prima è che doveva tenere una conferenza sulla creatività al ministero dell’educazione, la seconda è che è stato sul Kilimangiaro, ha visto i gorilla di montagna e i cercopitechi dorati. E la terza è esistenziale: «Comunque qualsiasi cosa io faccia ha a che fare col lavoro, anche quando ceno con i miei bambini, perché mi occupo di percezione».

Occuparsi di percezione significa studiare come ci facciamo un’idea del mondo che ci circonda, ma, esordisce Lotto, «se la domanda è “vediamo la realtà accuratamente?” la risposta non può che essere no. E nemmeno avrebbe senso farlo». Non la vediamo accuratamente perché la filtriamo attraverso occhi capaci di una lettura limitata delle cose: niente a che vedere con quei fenomeni dei bombi, che hanno un sistema sofisticatissimo per riconoscere i colori (decisivo se dovete vivere di fiore in fiore). O con le renne, che vedono la luce ultravioletta e in questo modo riconoscono le superfici di ghiaccio ricoperte di licheni, alimento base della loro dieta.

«Però tutto questo a noi non servirebbe: l’evoluzione ha selezionato organi della vista funzionali alla sopravvivenza delle specie» spiega Lotto, e intende: ha selezionato quel che funziona meglio per riconoscere il cibo e sfuggire ai predatori. E a questo scopo è probabilmente del tutto indifferente rendersi immediatamente conto che, in un cubo con la superficie fatta di quadratini colorati, un quadratino può essere percepito come arancione o marrone a seconda dei colori degli altri quadratini intorno(stiamo parlando dell’illusione ottica rappresentata qui sotto a destra, una delle favorite di Lotto). «Il mondo del resto non è colorato, siamo noi che lo vediamo così e, per esempio, vediamo di un colore che chiamiamo verde la luce di una certa frequenza riflessa dalla mia maglietta, in un certo ambiente». In realtà «per creare la nostra visione del mondo non usiamo solo gli occhi ma, al novanta per cento, il cervello: come dire che non siamo solo osservatori, ma anche creatori di significato».

Chi si occupa di percezione parte da qui, ma non può non considerare di avere alle spalle secoli di discussione filosofica, da Platone in poi. La domanda «vediamo davvero la realtà?» è un antico dilemma. «Oggi però le neuroscienze possono cominciare a dare una risposta», studiando gli organi di senso e come il cervello interpreta i segnali che questi gli mandano. «La scienza ha evitato a lungo di chiedersi il perché avvengano le cose, concentrandosi sul come. Invece credo che farlo sia necessario. E capire che la nostra percezione del mondo è fallace diventa l’inizio di una percezione diversa anche di noi stessi, degli altri, dell’ambiente».

Se siamo campioni di distorsione della realtà anche solo guardando un cubo di quadrati colorati, figuriamoci quanto possiamo sbagliare quando giudichiamo le azioni di un altro. «Vale anche in amore. È naturale chiedersi: come faccio a stare con una persona diversa da me, progettare un futuro insieme, se non sono capace di capire perché fa certe cose? Non ho accesso alla sua mente: come faccio? Ecco: in casi come questi, dove non hai certezze, l’evoluzione ti dà delle convinzioni utili, che però possono essere sbagliate». Vale anche per l’educazione, «da genitore devi capire che il tuo compito non è quello di proteggere i figli dalle difficoltà, ma di educarli a trattare i dubbi, i rischi, le sfide». E vale anche nella costruzione della società, nell’affrontare pregiudizi e conflitti culturali: «I politici sanno che creare incertezza e poi mostrarsi come l’unica soluzione è un modo per controllarci. Così come lo è manipolare il racconto della storia. Cioè: quello che facciamo oggi non è tanto il riflesso della nostra storia quanto dei significati che le diamo. E, per controllarci, religioni e governi ridefiniscono questi significati di continuo».

D’accordo, ma in pratica per “espandere i confini della mente” come si fa? Lotto promette di darci il coraggio di dubitare di quel che vediamo e l’umiltà di sapere che (quasi certamente) è sbagliato. Bisogna però lavorarci su. «Si comincia con l’acquisire consapevolezza del fatto che facciamo, in automatico, alcune assunzioni di base sul mondo, che possono essere sbagliate anche a un livello molto basilare, come la visione dei colori». Ed ecco perché il cubo colorato. «Poi devi giudicare queste assunzioni e metterle in discussione», cioè provare a liberartene. Qui, spesso, il giudice migliore non siamo noi, ma gli altri, e servono confronti ed esperienze. «Non è difficile ma ci vuole un ambiente adatto, non competitivo, che permetta di giocare». Giocare? «Sì, provare, sperimentare. Anche la scienza è un gioco: è un modo di essere che incoraggia a dubitare. A capire che per andare da A a B, o da qualsiasi altra parte, devi cominciare col muoverti da A a non-A». Devi, cioè, imparare a dubitare di quello che dai per scontato, prima di cominciare a costruire un nuovo pensiero.

A questo punto la domanda è: perché fare tutto questo in un laboratoriopieno di musica e giocattoli, come il Lab of Misfits? «Beh, il Lab serve a noi scienziati per osservare i comportamenti dei visitatori e a questi per capire le proprie percezioni, e come funziona la scienza. E serve anche alle aziende che coinvolgiamo, e che finanziano la ricerca». La telefonata fino in Sudafrica torna a farsi accidentata,

ma c’è il tempo per un ultimo dubbio: Lotto non è un cognome italiano? «Ah, buona domanda! Non lo so, chissà, è probabile». Beau Lotto fa una pausa: «Ma sapete: abbiamo radici in tanti posti diversi».

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