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Il Vittoriale degli Italiani: 100 anni tra memoria, identità e leggenda

Stratificazione di stili e culture diverse per la Zambracca, piccolo ambiente che D’Annunzio utilizzava come studiolo e come anticamera. A questo tavolo da lavoro morì per emorragia cerebrale. Era il primo marzo 1938, alle 20:05. Ph Massimo Listri

Verrebbe voglia di agguantare uno di quegli sgabelli azzurrini della cucina, sedercisi, posare lo sguardo sul sobrio pavimento a scacchi e prendere fiato. E chiedersi, a cent’anni di distanza, che cosa sia più moderno, se la cucina povera ed essenziale oppure tutto il resto. Perché dopo i gessi vestiti e acconciati dal Vate in persona, il soffitto in oro zecchino, il cavallo in bronzo di Elting, i sanitari colorati del bagno, le migliaia di volumi, la tartaruga-centrotavola della marchesa Casati, l’effetto è quello desiderato dall’arredatore: un gran capogiro, e sì che siamo in un luogo chiamato beffardamente Prioria, ovvero la ritenzione medievale e monastica, il silenzio austero e il raccoglimento. «Ha detto arredatore? Bene, molto bene. Così lui si definiva».

A parlare è Giordano Bruno Guerri, che di questo luogo più che il custode è il gran cerimoniere, con cultura e passione celate gentilmente nella posa svagata. «Io sono un migliore arredatore e tappezziere che poeta e scrittore», aveva effettivamente detto Gabriele D’Annunzio a Emy Mascagni, la figlia del compositore, e poi i cultori ricordano che lo stesso Mario Praz così lo aveva definito: arredatore, e infatti eccoci, circondati e forse sopraffatti da queste migliaia di cose, oggetti, reperti – «Diciamo pure: cianfrusaglie», rincara Guerri – a cento anni esatti da quando il retiro lacustre del Vate ebbe inizio.


Era infatti il febbraio 1921 e D’Annunzio firmava il primo contratto d’affitto di quella che fino ad allora era nota come la villa di Cargnacco, «nascosta fra i cipressi e i faggi ai piedi della collina che domina Gardone Riviera», scrive Maurizio Serra. Di lì a pochi mesi l’affitto divenne acquisto, «ma secondo lo stile dannunziano», nota Guerri: «Cioè facendo un mutuo che però non venne mai da lui pagato, anche se poi la regalò allo Stato italiano». Vittoriale si chiama l’intero complesso, Prioria la casa che D’Annunzio ripensò con l’aiuto di un architetto amico e seguace, Gian Carlo Maroni: da diciannove grandi stanze originali alla nuova sistemazione, trentasei piccoli spazi, regno delle ombre e penombre, tra gli oltre ventimila oggetti, per i quali conta più che il valore dei singoli (poco o nullo quello antiquario, per la maggior parte) l’accumulazione estrosa e compulsiva, che soddisfa il desiderio di comporre un’opera totale, un “Gesamtkunstwerk”, come ha scritto Harald Hendrix.


Eppure a voler essere dissacranti si intravede qualcosa del futuro modernariato di certe case contemporanee: Renzo Arbore che colleziona migliaia di oggettini plastici, per dire. «Non conosco la casa di Arbore, ma conosco la casa di Roberto D’Agostino», chiosa Guerri: «D’Annunzio è un precursore di questi grandi accumulatori, ha intuito un gusto che alla sua epoca nessuno concepiva, e che è diventato un canone estetico: quello che Arbasino ha chiamato il kitsch dannunziano, che non è a mio giudizio una definizione necessariamente sminuente, è un kitsch che diventa bello proprio perché eccessivo, oltraggioso. Altra cosa è il collezionismo, che D’Annunzio rifiutava: collezionano i borghesi, collezionano i fissati». Eppure ci sono un’infinità di elefanti, di Buddha, di spazzole… «O la enorme tartaruga africana, dono della Casati: morì dopo pochi mesi, la leggenda dice per un’indigestione di tuberose, ma non è vero, gli animali non muoiono di indigestione. Lui ne tenne il carapace, fece fare il corpo in bronzo, e la trasformò in centrotavola. Ma D’Annunzio non era un collezionista, non andava alla ricerca del pezzo mancante. Tutto questo è solo ornamento», sorride Guerri. Sa che dire “solo” al Vittoriale è il vero vezzo, mentre lo sguardo corre dal Bagno Blu al parco esterno, alla nave Puglia, alla limonaia: tutto questo, vien da pensare, è Dannunzioland, cioè un parco a tema.

La stanza del Mappamondo, che fungeva da cenacolo per ospiti particolari: artisti, editori e scrittori. Ph Massimo Listri.

Un po’ Orlando e Hollywood, un po’ il Castle di Hearst sulla costa californiana, alias Xanadu o Candalù nella versione cinematografica Wellesiana, un po’ forse anche la Neverland di Michael Jackson: la stessa mistura di fuga dal mondo, reggia personale e itinerario di divertimento. «È assolutamente così, così com’è vero l’ossimoro esibizione/nascondimento: non aveva bisogno di mostrarsi, era già un divo. Eppure la sua, che era una clausura, era anche un modo altro di esibirsi», si diverte Guerri. «E se questa è Dannunzioland, lui è contemporaneamente l’ideatore del parco e l’attrazione principale, il Topolino che regna e accoglie le comitive». Esausti dal giro sulle giostre, si torna alla cucina. È un gran sollievo minimal, e infatti non c’entra niente con il resto. Più che una cucina, una fucina, il motore del Vittoriale, con la macchina abruzzese per fare gli spaghetti alla chitarra, ma anche uno dei primi frigoriferi arrivati in Italia: un Electrolux. Dominio di Albina Becevello, cuoca padovana che D’Annunzio adorava, «l’unica donna che non ha mai assaltato, le scriveva grandi lodi per un piatto di pasta, le allungava anche duemila lire di mancia per una frittata, l’equivalente di tre mesi di stipendio. La chiamava suor Intingola».


E in ossequio a questo unico contropotere, ad lei il Vate disse: «La cucina falla come vuoi, è il tuo regno».

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