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L’iconoclastia dell’informazione. Anche Libero vittima di Twitter

Nella società contemporanea, e ancor più in quella del futuro, il potere è nelle mani di chi controlla l’informazione digitale. Costoro, spesso con manovre borderline, si arrogano il diritto di decidere della libertà di espressione degli utenti, monitorano milioni di dati, si appropriano delle informazioni personali che vengono richieste affinché qualcuno possa iscriversi a un social network. È il deep state, il potere sommerso di coloro che conosciamo ma non vediamo, contrariamente a essi, che invece conoscono e vedono. È iniziata l’iconoclastia dell’informazione; i fatti di Washington hanno dato il “la” all’inizio del concerto, che ha censurato Trump e ieri ha colpito anche Libero, quotidiano italiano di spicco. 

Twitter ha limitato temporaneamente l’account del giornale “Libero”. Infatti, si legge che “l’avviso qui presente ti viene mostrato poiché l’account in questione ha eseguito delle attività sospette. Vuoi davvero proseguire?”. Un giornale a cui è stata tappata la bocca, il metodo usato non si scosta molto dalle censure cinesi, sudamericane o proprie di alcuni regimi del passato e del presente. Soprattutto se si considera che non è stata decisa dal governo, ma da chi dovrebbe collaborare con la politica, massimamente nei tempi odierni. 

È servita la miccia violenta dell’assalto al Capitol Building per far capire al mondo il potere dei padroni dei media: Trump ostacola il prosieguo della democrazia? Gli viene tolta la parola, non da parte dei tribunali, ma da Zuckerberg. Ecco il paradosso, cioè il fatto che oggigiorno la forza dei media è superiore rispetto a quella della politica o della giustizia, complice anche l’inarrestabile avanzata dei  social, da anni entrati nella vita quotidiana di tutti. Ciò ha fatto sì che, innanzitutto, alcuni macro-imprenditori, come il patron di Facebook, Twitter e Instagram, acquisissero una potenza sconfinata e che la dipendenza degli utenti dalle scelte di costoro fosse una conditio sine qua non per lo svolgimento della vita comune. 

E così, dall’otto gennaio, la massa degli iscritti assiste inerme a una censura vergognosa, non solo oltralpe, ma anche entro i nostri confini. 

Ora a chi spetta giudicare la scelta fatta da Zuckerberg? Giovenale, appena cent’anni dopo Cristo, si domandava “Quis custodiet ipsos custodes”? Ovvero, chi sorveglierà i sorveglianti? Sorge un problema legale, che, se verrà risolto, sarà sciolto solo poi. Intanto, chi è stato messo a tacere soffre, come soffre l’utenza che si rifà all’informazione e ne risente la democrazia. 

Da quando Trump è stato bannato, Twitter ha perso 5 bilioni di dollari in valore di mercato (Markets Insider). Ciò vuol dire che, forse, per un imprenditore la scelta non è stata di gran successo e in futuro potrebbe essere pensata meglio, prima di essere concretizzata. Proprio per questo, però, il mondo dell’informazione non può tacere: il bavaglio non calza a pennello sulle bocche di chi, meglio o peggio, gradito da alcuni e sgradito da altri, informa e offre chiavi di lettura alla collettività. E non calza perfino sulla bocca di un tycoon come Trump che, aizzando la folla, l’ha combinata grossa ed è corresponsabile dell’oltraggio dei suoi elettori, ciononostante non merita una censura siffatta, perché se qualcuno sbaglia lo decide la giustizia, non la policy di un social media.

Che sia un monito da scolpire nella mente: fintantoché una democrazia sarà libera, anche l’informazione sarà tale. Se solo uno dei due tasselli salta, il puzzle si sfalda. E lascia dietro di sé una parete fragile. 

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