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Gran Bretagna, Boris Johnson si dimette da ministro degli Esteri

LONDRA – Due dimissioni pesanti minacciano il futuro di Theresa May: prima David Davis, ministro per la Brexit, poi il ministro degli Esteri Boris Johnson, lasciano il governo per protesta contro il nuovo piano presentato dalla premier per il negoziato sull’uscita dall’Unione Europea. Entrambi lo giudicano troppo morbido: una “soft Brexit” che tradirebbe il risultato del referendum sulla Ue di due anni fa. E adesso cresce la possibilità di un voto di sfiducia che potrebbe rovesciare la leader conservatrice.
E’ la resa dei conti all’interno dei Tories a lungo rimandata. Una svolta che può aprire qualunque scenario: un rafforzamento di May; un nuovo leader del partito e del governo, con lo stesso Johnson fra i candidati più forti; elezioni anticipate, con la possibilità che, davanti ai conservatori divisi, le vinca il laburista Jeremy Corbyn; e un secondo referendum sulla Brexit, o meglio sull’eventuale accordo finale tra Londra e Bruxelles. Ammesso e non concesso che, nel caos attuale dentro al governo britannico, le due parti arrivino a un accordo.
Venerdì scorso la premier sembrava avere vinto una battaglia cruciale, quando ha convocato l’intero governo a Chequers, la “Downing Street di campagna”, ottenendo dopo dodici ore di discussioni il sostegno collettivo al suo nuovo piano per la Brexit. Piano che prevede la creazione di un’area di libero scambio con la Ue, un “sistema di mobilità” per gli immigrati dall’Unione e un mantenimento di fatto, se non di forma, di stretti legami commerciali e giuridici. La “soft Brexit” spesso paventata dai brexitiani duri e puri, secondo i quali lascerebbe in sostanza quasi tutto immutato rispetto alla permanenza nella Ue.
Ma è stata apparentemente una vittoria di Pirro – e di breve durata. Dopo un colloquio con May domenica, questa mattina Davis ha annunciato le dimissioni: “E’ una buona premier, ma ha bisogno di un ministro che creda nel suo piano e io non ci credo”. Nel pomeriggio, dopo essersi chiuso in casa con i propri consiglieri, sono giunte anche le dimissioni di Boris Johnson: che già venerdì, a Chequers, aveva descritto il nuovo piano per la Brexit come “una stronzata”, aggiungendo che nel governo c’era gente capace di “abbellire qualunque stronzata”. Nella sua lettera di dimissioni Johnson ha rincarato la dose: “Il sogno della Brexit sta morendo,
soffocato da dubbi inutili. Così ci avviamo ad assumere lo status di una colonia dell’Ue”. Di fatto l’annuncio della battaglia per sfidare la linea dell’attuale primo ministro in seno al partito.
Si è dimesso anche Steve Baker, il vice ministro per la Brexit, rivelando che a indispettire i brexitiani è stata anche la rivelazione “umiliante” da parte di Downing Street di come sono stati trattati a Chequers: dove i ministri ribelli si sono prima visti confiscare i telefonini, poi hanno ricevuto biglietti da visita di agenzie di taxi locali, con l’avvertimento che, in caso di dimissioni, avrebbero perso immediatamente il diritto all’auto ministeriale e avrebbero dovuto pagarsi di tasca proprio il viaggio di ritorno fino a Londra.
Al posto di Davis, Theresa May ha nominato Dominic Raab, 44enne sottosegretario all’Edilizia, una stelle ascendente dei Tories, anche lui brexitiano ma più flessibile e pragmatico. La nomina del nuovo ministro degli Esteri sarà “imminente”, afferma un portavoce di Downing Street. Potrebbe essere il ministro dell’Ambiente Michael Gove, pure lui brexitiano, che per la seconda volta in due anni ha “tradito” Johnson, appoggiando a sorpresa Theresa May alla riunionee di venerdì. La prima fu dopo il reeferendum, quando ostacolò la candidatura di Boris a premier affermando che, avendolo conosciuto da vicino nella campagna referendaria, non lo giudicava all’altezza del ruolo.
Stasera la premier incontra i deputati conservatori e lì si vedrà l’effetto delle dimissioni a catena. I brexitiani, guidati da Jacob Rees-Mogg, un altro possibile aspirante premier, potrebbero raccogliere le 48 firme di deputati Tories necessarie a innescare un voto di sfiducia. Se il voto ci sarà e May lo perdesse, sarebbero inevitabili le sue dimissioni. E partirebbe una nuova corsa a guidare il partito e il governo. Ma con una maggioranza fragilissima in parlamento, sorretta dai 10 voti del Dup, il piccolo partito unionista nord-irlandese, qualunque successore di May sarebbe in una posizione di estrema fragilità. Da cui l’ipotesi di tornare a votare: elezioni anticipate, forse in autunno. E magari nuovo referendum sulla Brexit prima del marzo 2019, la data entro cui a meno di rinvii deve concludersi la trattativa.

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