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Van Gogh visto da Julian Schnabel: “Non conta la biografia ma lo sguardo”

“Quello che è certo è che questo non è un biopic, non sono alla ricerca della verità, non mi importa se Van Gogh si è suicidato oppure no, se quei disegni ritrovati solo due anni fa sono veri oppure no. Quello che mi importava era dire tutto quello che penso sulla pittura e l’ho fatto con la storia di Vincent Van Gogh; come lui dice ‘i dipinti sono io’, ugualmente io posso dire ‘il film sono io'”.

Il pittore e regista Julian Schnabel (una nomination all’Oscar per Lo scafandro e la farfalla) firma il suo film più personale, At Eternity’s Gate (in concorso), racconto degli ultimi anni della vita del grande pittore (interpretato dall’amico Willem Dafoe), della sua amicizia con il collega Paul Gauguin (“considerato sempre uno stronzo e che invece di Vincent si è occupato”, Oscar Isaac), del rapporto con il fratello Theo, con i protagonisti di tanti suoi quadri: il dottor Gachet (Mathieu Amalric), la locandiera Madame Ginoux (Emmanuelle Seigner) ma soprattutto con la natura, con il lavoro, con gli altri intorno a sé. “Tutti pensano di sapere tutto su Van Gogh e sembrava assurdo fare un altro film su di lui. Eravamo io e Jean-Claude Carrière (che firma il film, ndr) al Musee d’Orsay e guardando i suoi dipinti ci è venuta l’idea di rendere l’emozione, l’esperienza di entrare in museo, avvicinarsi ai quadri, guardarli e poi passare oltre, uscendo con quel senso di ‘accumulazione’ che danno tante opere insieme. È impossibile spiegare il film, è impossibile darne una ragione, ogni volta che raccontiamo in qualche modo mentiamo. Io ho cercato, con il cinema, un equivalente delle sensazioni che si possono avere con un’opera d’arte”

Il film porta lo spettatore nella soggettiva dell’artista, tratteggia il mondo – che sia la cittadina di Arles dove Van Gogh fatica a integrarsi o la meravigliosa campagna circostante il cui il pittore cerca conforto con lo stesso stile del suo protagonista. Dopo lo straordinario esperimento cinematografico-visivo di Loving Vincent (candidato all’Oscar tra i film di animazione), anche il biopic non biopic di Schnabel cerca di raccontare l’artista con i mezzi dell’artista e chi meglio di lui che ha dedicato tutta la sua filmografia al racconto dell’arte (Prima che sia notte sul poeta cubano Reinaldo Arenas, Basquiat sul pittore suo amico, Lo scafandro e la farfalla sullo scrittore Jean-Dominique Bauby).

“Tutte le storie che si raccontano sono bugie. Avete presente Rashomon, la realtà può essere molto diversa a seconda di chi la racconta. Pappi Corsicato ha fatto un film su di me, ogni membro della mia famiglia ha detto cose diversissime – prosegue Schnabel – quel che contava qui era rappresentare l’arte come strumento di trascendenza. Van Gogh, come si legge nelle sue lettere, era lucido, consapevole del suo valore e forse, come si vede in un dialogo con un prete (Mads Mikkelsen, ndr), si identificava davvero in Gesù. Ma ci tenevo anche molto a rappresentare la sua paura di impazzire, di essere sempre ai confini della sanità mentale”.

A incarnare il genio tormentato ma anche lucido dell’artista c’è il talento mimetico di Willem Dafoe, che con questa interpretazione si candida seriamente alla Coppa Volpi maschile: ”Ho dovuto imparare a dipingere, era davvero necessario. In questo ovviamente mi ha aiutato Julian che conosco da oltre 40 anni e che ho visto sempre al lavoro, nel suo spazio. Ho anche letto molto, ovviamente, Julian mi ha dato un libro che conteneva tutte le sue lettere, i suoi pensieri”. “Willem era il miglior alleato che potessi avere – conclude il regista – e sono profondamente grato a tutti coloro che hanno partecipato al film, non avrei potuto vedere nessun altro in ogni ruolo. Ad oggi avrò visto il film cento volte e mai mi sono stancato”.

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