EXITO STYLE

“Possiamo vincere”. La destra lancia l’Opa sull’Emilia Romagna

La coalizione, divisa dal governo Conte, si ritrova alla Festa del Tricolore in vista delle amministrative del 2019


FERRARA – Non si è ancora sopito, a destra, l’entusiasmo del 4 marzo. In una regione storicamente rossa ma diventata improvvisamente contendibile, e in una città dove la coalizione Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia ha portato in trionfo i suoi candidati sia nel collegio uninominale della Camera che in quello del Senato (facendo due vittime illustri: il ministro uscente Franceschini e la prodiana Zampa), la speranza di fare il bis è fortissima. Appuntamento nella primavera 2019, quando si voterà sia per il sindaco di Ferrara che per il governatore dell’Emilia Romagna.

L’occasione per lanciare la doppia sfida è la Festa del Tricolore, erede delle vecchie kermesse di Alleanza Nazionale di Mirabello. Location più piccola, la vecchia Borsa davanti al Castello Estense, pubblico modesto, circa 500 persone, ma ambizioni alle stelle. A una condizione, però: evitare qualsiasi polemica sulla diversa collocazione dei tre alleati a livello nazionale e giurare fedeltà alla formula classica della destra: tutti uniti contro il centrosinistra, e i Cinque Stelle facciano come meglio credono. Anche perché, almeno in Regione, il sistema elettorale a turno unico consente: chi prende un voto più degli altri, foss’anche lontanissimo dal 50 per cento, piglia tutto. E cinque mesi fa, nel territorio compreso tra Piacenza e Riccione, la destra staccò il Pd e i suoi alleati 2,2 punti percentuali. Per Ferrara città il discorso è diverso, lì c’è il doppio turno e una mano dei 5 Stelle sarà necessaria per forza. Ma parlarne è prematuro.

Le prove generali si fanno nel pomeriggio, in attesa che da Roma arrivi Giorgia Meloni per il comizio conclusivo (seguiranno cena tricolore e proiezione, tanto per non perdere le proprie radici, di “Mi chiamo Ida”, film sull’eccidio di Argelato, bruttissimo episodio di vendetta partigiana contro un gruppo di fascisti o presunti tali nell’immediato dopoguerra).

Primo a presentarsi sul palco è l’uomo sconfitto da Bonaccini alle ultime regionali, il leghista Alan Fabbri, secondo la vox populi candidato in pectore (“ma non ho ancora deciso”, dice) a sindaco di Ferrara. Affiancato dal senatore di FdI Balboni e dalla consigliera comunale ferrarese Peruffo, che in omaggio al nero dominante parla del Pd come se fosse il Pci ai tempi di Pietro Secchia, Fabbri sembra quasi un doroteo. Parla con calma, sfoggia l’aplomb appreso quand’era sindaco di Bondeno, evita di esporsi più del dovuto: quasi la fascia da primo cittadino l’avesse ancora (o già) indosso. Tocca così a Balboni risvegliare l’orgoglio degli eredi del suo quasi omonimo (il gerarca e trasvolatore ferrarese Italo Balbo) ricordando il recente trionfo: “Sono qui come rappresentante della città di Ferrara nel col-le-gio u-ni-no-mi-na-le!”, scandisce sillabando, quasi non ci credesse ancora nemmeno lui.

Invece è tutto vero, e si può rifare. Così, quando la palla passa al dibattito dal significativo titolo “C’erano una volta le regioni rosse”, i partecipanti si mettono a fare a gara su chi è più unitario. Lo fa il padrone di casa, il coordinatore regionale dei FdI Tommaso Foti, quando giura che dei suoi alleati si fida ciecamente e garantisce che qualsiasi nome sarà scelto dalla coalizione per mandare a il Pd a casa per lui andrà bene. Conferma, nonostante l’ambivalenza attuale al governo del Paese, il segretario regionale del Carroccio Gianluca Vinci. Ma più di tutti s’infervora la senatrice berlusconiana Anna Maria Bernini, che pure fra i tre è l’unica in Parlamento a stare platealmente all’opposizione: il programma c’è, dice, ed è un programma vincente. Quindi tutti uniti, per fare in Regione il bis del mitico 1999, quando Giorgio Guazzaloca strappò Bologna al Pds.

Per far cosa, è meno chiaro. Anche perché, per quanto ci si sforzi, sostenere che in Emilia Romagna si stia malissimo è abbastanza arduo. E infatti nessuno ci prova, salvo la Bernini quando si lancia in un lungo ragionamento sul fatto che Emilia e Veneto hanno un Pil simile ma solo al Veneto viene riconosciuto il ruolo di locomotiva d’Italia. Restano quindi due temi: uno che piace a tutti, il sì incondizionato alle infrastrutture, ma anche qui con i dovuti distinguo, perché il Passante di Bologna va fatto ma non è chiaro dove, e la Cispadana è fondamentale ma nel Ferrarese va bene se è un’autostrada mentre nel Modenese vogliono una strada a scorrimento veloce senza pedaggio, e quindi bisognerà ascoltare i territori prima di decidere. L’altro, l’immigrazione, che a patto di non scendere troppo nei dettagli mette tutti d’accordo.

Ma si tratta, appunto, di dettagli. La sostanza è che l’Opa è lanciata. E se ancora non si sa il nome del capitano che la guiderà, dicono Foti e Vinci, “ci dovete perdonare, ma se lo facciamo ora rischiamo di bruciarlo. Aspettate dicembre o gennaio, poi saprete”.

Lo conferma anche Giorgia Meloni. Che dopo un’ora di discorso appassionato sul patriottismo, sull’immigrazione, su Orban che “lo voglio vedere ricevuto a Palazzo Chigi”, sul Pd che sta con la grande finanza e le banche, su Soros che dà i soldi alle navi delle Ong nel Mediterraneo, sulla guerra alla mafia nigeriana che è l’emergenza principale e sulla lotta all’evasione fiscale che va fatta andando a controllare le aziende cinesi, ebbene al termine di tutto questo, finalmente, proclama: “Possiamo vincere. Anche qui”.

POST A COMMENT