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Impeachment, come funziona la messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica

Impeachment, come funziona la messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (ansa)
Il capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio ha annunciato che chiederà la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È quella che molti chiamano “richiesta di impeachment” anche se nell’ordinamento italiano non esiste la procedura d’impeachment vero e proprio. Questo termine inglese (variazione del francese empêchement, letteralmente ‘impedimento’) è oggi entrato nel gergo comune per chiamare il processo contro il Capo dello Stato ma, in realtà, indica un istituto tipico del sistema politico americano, la cui Costituzione prevede tale procedura sia per i giudici sia per i componenti dell’esecutivo, ma che è abbastanza diversa dalla nostra. In Italia, come detto, la Costituzione disciplina invece la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, articolo 90 della Carta fondamentale, che recita: “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”.
I presupposti. Una procedura, nei fatti, molto stringente e prevista solo in casi tassativamente indicati. Fatta salva l’assenza di responsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, il Presidente della Repubblica può infatti essere giudicato solo per i reati di ‘alto tradimento’ (ad esempio la diffusione di segreti di Stato o, in tempi di guerra, l’accordo con Stati esteri nemici) oppure, ed è il caso del documento presentato dai Cinquestelle, per ‘attentato alla Costituzione’ (quando, cioè, si verifichi una violazione delle norme costituzionali tale da stravolgere i caratteri essenziali dell’ordinamento al fine di sovvertirlo con metodi non consentiti dalla Costituzione stessa). L’ammissibilità di questa messa in stato d’accusa è una prerogativa esclusiva del Parlamento, la sentenza spetta invece alla Corte costituzionale.
L’analisi preliminare. Quando viene presentata la richiesta formale, si riunisce d’urgenza un comitato di deputati e senatori scelti tra i componenti delle rispettive giunte di Camera e Senato competenti per le autorizzazioni a procedere. La maxi-commissione (20 membri, scelti d’intesa fra i presidenti delle due assemblee e nominati proporzionalmente al ‘peso’ dei gruppi parlamentari) svolge un primo esame delle accuse e decide se archiviarle o sottoporre la questione al Parlamento in seduta comune. Qualora prevalga questa seconda ipotesi, per dare corso all’iter serve la maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento (i 630 Deputati più i 315 Senatori, cui vanno aggiunti i Senatori a vita). Numeri alla mano, attualmente, servirebbero 477 voti per decidere di procedere con la messa in stato d’accusa.

Il processo. Ma non sarà il Parlamento a giudicare materialmente il capo dello Stato: in caso di voto favorevole delle Aule, infatti, la Costituzione (agli articoli 134 e 135) prevede che sia un organo terzo e indipendente ad avere la responsabilità della decisione finale: la Corte Costituzionale, con una composizione differente rispetto alla generalità dei casi. Ai 15 componenti cosiddetti ‘togati’, che formano la Corte propriamente eletta, si aggiungono altri 16 membri estratti a sorte dallo speciale ‘elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a Senatore’, che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici costituzionali ordinari (in seduta comune e a maggioranza dei 2/3 dei componenti). Ma non è finita, perché ai 31 ‘giudici’ si aggregano i cosiddetti ‘Commissari d’accusa’ (uno o più di uno) eletti dal Parlamento, tra i propri membri, per sostenere le accuse a carico del Presidente della Repubblica.
La sentenza.  A questo punto parte il processo vero e proprio, che si svolge come un classico procedimento penale (con udienze, testimonianze, interrogatori, dibattimento) al termine del quale la Consulta emette una sentenza con cui dichiara la destituzione del Presidente oppure lo assolve dai capi d’accusa. Una sentenza che sarà inappellabile, come tutte le decisioni della Corte Costituzionale.
Un procedimento, dunque, molto articolato che ha l’obiettivo implicito di tutelare il più possibile il capo dello Stato, garante della Costituzione e dell’unità nazionale, da accuse pretestuose e strumentali, riservando un’analisi esauriente solamente a reati davvero gravi. Per questo, nella storia repubblicana, nessun Presidente è mai stato formalmente messo in stato d’accusa né, ovviamente, destituito. Anche se, in un paio di occasioni, ci si è andati vicino: nel 1978, quando Giovanni Leone si dimise dopo l’annuncio del Pci di voler avviare la procedura d’impeachment per lo scandalo Lockheed, e nel 1992, quando il Pds dichiarò di voler chiedere lo stato d’accusa per Francesco Cossiga (per aver snaturato il ruolo di Presidente), il quale però si dimise poche settimane prima della scadenza del mandato.

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