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Il ritorno della Cassa integrazione La partita dei 144 tavoli di crisi

Cassa integrazione: signori si cambia. Il governo Renzi con il Jobs Act aveva invertito la rotta. Stop agli ammortizzatori a oltranza, massimo tre anni a carico dell’Inps tra cassa e solidarietà. E poi o l’azienda riparte o si passa alla Naspi (la disoccupazione) e alle politiche attive (gli interventi per aiutare i disoccupati a trovare un altro posto). Inoltre, stop alla cassa per i dipendenti delle aziende che chiudono.

Ieri il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio al Corriere ha parlato chiaro: a settembre torna per decreto la cassa per cessazione. Fino al 2015 esisteva e durava un anno. Poi è stata cancellata dal Jobs Act. In base alla seguente logica: non ha senso tenere i lavoratori alle dipendenze di un’azienda chiusa, tanto vale spendere i soldi per assegno di disoccupazione e politiche attive.

Un caso di scuola è stato quello di Embraco, a Riva di Chieri, in Piemonte. Il governo Gentiloni lo ha affrontato trovando un altro gruppo in grado di subentrare. Ora c’è da risolvere il caso gemello della Bekaert di Figline Valdarno (Firenze). Per i 318 dell’azienda che producono cavi d’acciaio — e per tutti i dipendenti in situazioni simili — tornerà a breve la cassa per cessazione. Se durasse un anno, come prima del 2015, allora il lavoratore licenziato potrebbe contare su dodici mesi di cassa più due di Naspi.

Per il centrosinistra che aveva varato la riforma degli ammortizzatori le novità che vuole introdurre il governo gialloverde non rappresentano il cambiamento ma la restaurazione. E Marco Leonardi, responsabile economico del Pd, su Twitter stima in 250 milioni la spesa annua da mettere in conto per ripristinare la cassa per cessata attività.

Al sindacato, però, l’idea piace. D’altra parte non potrebbe essere diversamente. «In Emilia solo nel settore metalmeccanico abbiamo una decine di aziende a rischio chiusura, una di queste è la Tecno di Reggio Emilia, 300 posti a rischio. Ovviamente il ritorno della cassa integrazione sarebbe benvenuto», valuta Bruno Papignani, segretario generale della Fiom dell’Emilia Romagna.

I tavoli di crisi al Mise al 30 giugno erano 144 e vedevano coinvolti 189 mila lavoratori. Le aziende a rischio chiusura sono solo una minima parte. Poi ci sono tutte quelle che vorrebbero resistere ma stanno finendo i tre anni degli ammortizzatori. Visto che la riforma è del 2015, non potranno che aumentare nei prossimi mesi. Tra queste la Electrolux di Solaro, per esempio. È vero che nella Stabilità di quest’anno ci sono 100 milioni da destinare al prolungamento eccezionale degli ammortizzatori nelle crisi che coinvolgono più di 100 dipendenti. Ma la coperta rischia di essere corta. «Bene la reintroduzione della cassa per cessazione — approva il segretario della Cisl Luigi Sbarra —. Però chiediamo al ministro Di Maio un tavolo per affrontare anche il problema dell’esaurimento degli ammortizzatori in molte aziende. Un fenomeno che riguarda decine di migliaia di lavoratori».

«Qui in Piemonte il problema si è già posto con Fca a Mirafiori. Lo abbiamo risolto spostando 1.052 lavoratori da Mirafiori a Grugliasco. Però non è finita qui. O arriva un nuovo modello da affiancare al suv Levante, o il problema si riproporrà in autunno», dice Dario Basso, segretario generale della Uilm di Torino.

Alcune aziende, come la cooperativa ceramica d’Imola, hanno cominciato a risolvere l’emergenza con accordi che trasformano i contratti di una parte dei lavoratori da tempo pieno in part time. Nel caso della ceramica d’Imola, però, l’azienda stessa ha garantito una buona integrazione alle buste paga di chi ha accettato l’orario ridotto. Manco a dirlo, soprattutto donne.

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