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Valeria Golino: “Il dolore è un’opportunità, ma non lasciateci soli. Scamarcio? Siamo indivisibili ma non siamo mai stati amici”

L’intervista all’attrice e produttrice che torna al cinema con “Euforia”, il suo secondo film da regista: “Weinstein non è solo un orco, ma un uomo dal gran carisma. Gli dissi di no”

‘euforia è una sensazione bella e pericolosa che nasconde sempre qualcos’altro e, di solito – come ci ricorda la scrittrice e sceneggiatrice Francesca Marciano, “è una sorta di schermo sopra una piccola ansia”. Siamo euforici se abbiamo qualcosa che ci turba e l’euforia cela sempre il suo contrario, dimostrando che la felicità e la serenità sono ben altro. Per Valeria Golino, attrice, regista e produttrice, “una donna docile con un gran difetto, l’ignavia” – confida all’HuffPost – è un tema che andava trattato.

E’ per lei quel sentimento che coglie i subacquei a grandi profondità, “sentirsi pienamente felici e totalmente liberi”. “È la sensazione a cui deve seguire l’immediata decisione della risalita prima che sia troppo tardi, prima di perdersi per sempre in profondità”, ci spiega. Siamo seduti nel giardino dell’hotel dove Ettore Scola aveva casa. Attorno a noi, gente – tanta, troppa – cibo e vino di qualità, qualche americano con le infradito, una signora col cappotto leopardato e poi lei, binda e riccia, che ci fissa con i suoi occhi celesti perfezionando il tutto con un tono di voce caldo e sensuale. Il 25 ottobre prossimo esce per Ht Film, Indigo Film e Rai Cinema il suo nuovo film, presentato in esclusiva a Cannes lo scorso maggio nella sezione Un certain Regard. Si intitola proprio “Euforia”, ed è la storia di due fratelli, Matteo (Riccardo Scamarcio), giovane imprenditore di successo, spregiudicato e dinamico, ed Ettore (Valerio Mastandrea), che vive ancora nella piccola città di provincia dove sono nati entrambi.

All’apparenza sono agli antipodi, ma in realtà la vita li obbligherà a riavvicinarsi per via di una situazione molto complicata, occasione per conoscersi e scoprirsi di nuovo. Nel cast ci sono anche Isabella Ferrari, Valentina Cervi, Andrea Germani, Marzia Ubaldi Jasmine Trinca. La Golino lo ha scritto proprio con la Marciano e con Valia Santella, un tris d’assi che ha già scritto il suo film precedente, il primo, “Miele”, grande successo di pubblico e critica.

Dopo “Miele”, come è andata?

“Ho avuto bisogno di tempo prima di affrontare con le mie due sceneggiatrici una nuova storia. Nel frattempo ho recitato, ho fatto altro. Poi una sera, durante una cena, abbiamo messo a fuoco questa storia che piano piano è venuta fuori. “Miele” era un film più univoco nei contenuti (trattava il tema etico dell’eutanasia, ndr), era più possibile fare un’estetica come quella che mi somiglia nel gusto e in quello che mi piace. “Euforia” invece aspirava a raccontare una cosa più grave, il tema di una malattia, ma voleva trattarlo facendo anche ridere a tratti. Dovevo rientrare nella convenzione, è stato più difficile scriverlo perchè aveva toni che si mischiavano. Poi ha inciso anche il fatto che fosse il mio secondo film e questo ha avuto un certo peso nell’intimo. In ogni caso, l’oggi è difficile da raccontare”.

Perché?

“Quando scrivo, cerco sempre qualcosa che trascenda dai semplici fatti. Racconto molte cose prese dalla realtà che vivo o che ho vissuta, o che hanno vissuta gli altri e me l’hanno raccontata. Pongo delle domande, ma non ci sono risposte. Il trend che ha prodotto anche dei bellissimi film è quello del raccontare l’oggi tramite la marginalizzazione e l’alienazione della periferia o della povertà. E’ sicuramente molto interessante e puoi fare in tal senso dei bei film, ma è più facile. Ci sono dei temi in cui il giusto e lo sbagliato, la giustizia e l’ingiustizia entrano invece dentro come dei macigni”.

Come dice la sua amica e collega Valeria Bruni Tedeschi, raccontare la borghesia è quindi più complicato?

“Quando racconti la borghesia – che sempre meno si fa, soprattutto di quella di oggi, abbiente e più o meno spregiudicata, senza dei veri drammi dentro, perché é nell’abbondanza e non è certo quella di “Ritrattto di borghesia in nero” di Visconti – beh, è più difficile da raccontare. In realtà ci riguarda, riguarda tutti noi. E’ difficile raccontare il dramma dell’abbondanza. Come fai? Come fai a raccontare la mancanza della tragedia? La tragedia è stata vista e rivista, spettacolarizzata, ma adesso non voglio fare discorsetti moralisti o di giudicare”.

Nei suoi due film da regista non compare mai nessun giudizio…

“Questo non le piace”?

Sì molto, perché lascia decidere eventualmente al tuo pubblico.

“Dovrei fare un film con quel titolo, “Eventualmente” (ride, ndr). Per me, questo è più importante che far passare qualsiasi tipo di messaggio e di dare delle risposte. Io mi pongo delle domande, dei quesiti, paure,…poi aspetto delle risposte”.

Il film parla del dolore ma non solo. Il dolore è una forma privata, ognuno lo vive a suo modo: lei?

“Sono un po’ Matteo un po’ Ettore, i due fratelli nel film, due personaggi che non sono opporti come si penserebbe. Non faccio mai il cinema degli opposti, il ricco e il povero, l’etero e l’omosessuale…li prendo già per scontati. C’è un apparato che già c’è. Per Matteo, ad esempio, il dolore è un’opportunità e lui inconsciamente lo sa. Questo lo penso anche io: il dolore è un’opportunità”.

Sarà proprio quel personaggio a dire una bugia, ma a fin di bene: lei che rapporto ha con la bugia?

Le parole sono per me molto importanti, non mi piace raccontare i temi raccontando storie, è più pregna di significato un’immagine che molte parole. Detto questo, la bugia è necessaria.

Non ho nulla contro la bugia. Ti può portare a fare cose ridicole, ma non saprò mai se è meglio raccontarsi la verità e avere la dignità di dirsi le cose o tenersele nascoste a vita. Nel caso di una morte, per esempio: cosa fare? Io penso che sia meglio dirselo chiaramente e portarla nel rapporto, perché più nobile. La menzogna allontana la morte e il dolore, c’è anche un’eleganza nella menzogna. E’ la persona malata stessa che te lo chiede, perché non vuole essere considerata il moribondo o il malato, ma chi era e chi è stato. Quando ufficializzi, diventa prima tutto quello che sta succedendo e poi tutto il prima dove finisce?”

Ci si vergogna spesso del dolore: secondo lei perché?

“Dipende dalla malattia. Mentre facevo questo film, ho letto “La malattia come metafora”, un libro che Susan Sontag ha scritto durante la sua malattia, un tumore che l’ha uccisa. È molto interessante come alcune malattie portino insita la vergogna”

Si pensi alll’Aids, ad esempio…

“L’Aids in assoluto nel Novecento, subito sotto il cancro”.

Soprattutto nel caso di morti omosessuali: morto “dopo una lunga malattia”: perché non dirlo?

“Perché la malattia è metafora di qualcos’altro: è colpa tua, della tua vita dissoluta, del punizione di Dio, dell’amore innaturale tra due uomini e così via. È stato preso a manna più del tumore che porta dietro tutta una vergogna: sei malato perché una persona irrisolta, perché il corpo si è ribellato alla tua paura…c’è un ammutinamento del tuo essere, il tumore non è nobile”.

Nel frattempo, lo scrittore Premio Strega Walter Siti le manda un sms che ci legge e che ci permette di pubblicare: “Ho visto il film – le scrive – è bello. Sono contento di aver partecipato in minima parte, comunque resto della mia idea che il cinema è il diavolo: appena provi a dire quello che non si può dire, lui fa il possibile per distrarti”.

È un complimento, no? Ci fa lei e gli risponde: “Leggo il tuo messaggio vocale mentre faccio interviste, ti chiamo dopo e mi dici meglio”.

Arriva nel frattempo anche Riccardo Scamarcio, la abbraccia e se ne va.

Come fate ad essere così amici?

“Non lo siamo affatto, siamo molto legati, ma non amici. Siamo indivisibili, ma amici non lo siamo mai stati. Siamo stati una coppia, non si è mai amici col proprio marito”.

Adesso è quindi più facile?

Non ancora. È sempre stato facile, ma prima; ora non lo è, ma lo diventerà”.

La differenza d’età non è mai stata importante per lei?

“In questo caso, no. Non ragiono in questi termini, Riccardo mi sarebbe piaciuto anche se avesse avuto cinquant’anni e io trenta. Mi piaceva poi la sua giovinezza, ma non abbiamo mai pensato alla nostra età come un ostacolo, non era parte dei nostri problemi. Poi ci siamo comunque lasciati, ma ci saremmo lasciati anche se avessimo età diverse”.

E’ innamorata adesso?

“Lo sono sempre”

Lei fa parte del movimento “Dissenso Comune” e nell’affaire #MeToo possiamo dire che lei l’ha vissuto in maniera molto personale.

“Sì, è vero. Una forma molto privata. Con Weinstein sono stata in una situazione difficile. Non ne avrei mai parlato perché non la propongo come argomento, ma se mi viene chiesto, non mento. Esistono anche non orchi, tanti, milioni di uomini che non lo sono. Weinstein ha portato un malcostume per troppo tempo e ne pagherà le conseguenze, ma non bisogna dimenticare che è una persona con un certo carisma. Non è solo orco, ma anche un uomo di grande intelligenza, pieno di risorse. Con lui mi sono trovata e ho reagito a mio modo, negandomi. Ne ho pagato le conseguenze. Negli anni ci siamo rivisti e anche con una certa simpatia”.

Forse proprio perché gli aveva detto di no?

(Sorride, ndr). Penso che lui abbia stimato la mia posizione. Tante donne gli hanno detto di no, ma tante gli hanno detto di sì. E’molto complicata questa cosa, è complessa, perché l’animo umano ha le sue sfaccettature, dal meschino al sentimento più nobile alla giustizia…non se ne può parlare solo in bianco e nero. Comunque ne continueremo a parlare, questo è sicuro”.

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