Negli ultimi mesi, le voci sulla prossima uccisione del leader nordcoreano, Kim Jong-un, si sono fatte molto insistenti. In molti ritengono che si tratti di propaganda tesa a rendere sempre più chiaro l’assedio mediatico nei confronti del regime di Pyongyang. Altri, invece, ritengono che il piano per uccidere Kim e decapitare il regime sia assolutamente reale e prossimo all’applicazione. Questo secondo scenario non è sottovalutato neanche dal regime tanto che, come sembra, Kim non solo ha ridotto notevolmente le sue apparizioni in pubblico, ma pare versi in uno stato di profonda preoccupazione tanto da cambiare continuamente mezzi su cui viaggia e località in cui si trova. A queste informazioni, che pagano il fatto di provenire da fonti poco verificabili, trattandosi quasi sempre di agenzie sudcoreane che hanno interesse a mostrare i limiti umani del leader di Pyongyang, si aggiungono però notizie molto più concrete provenienti dalle forze armate schierate sul nella penisola coreana. Forze armate che, ricordiamo, sono sia quelle della Corea del Sud, sia quelle, ben più potenti, degli Stati Uniti d’America.
È sempre difficile comprendere in questi casi se la mossa sia più utile a lanciare un messaggio piuttosto che a rappresentare una vera e propria minaccia. La presidenza Trump ha più volte utilizzato i movimenti delle truppe e le esercitazioni militari per dimostrare di essere pronti a tutto e non lasciarsi intimidire rispetto alle provocazioni balistiche o nucleari di Kim Jong-un, ma non sembra intenzionata a muovere il primo passo. Resta comunque il pericolo di un incidente che possa costare molto caro a tutta la penisola coreana. Ma dopo gli ultimi test balistici di questa estate, qualcosa sta cambiando nella percezione della possibilità di eliminare il leader nordcoreano. A settembre, il ministro della Difesa di Seul confermò l’addestramento di unità speciali con lo scopo unico di uccidere Kim Jong-un. E a questa notizia, si aggiunge ora la presenza dei reparti d’élite statunitensi. Un messaggio per rendere ancora più nervoso il leader di Pyongyang? Probabile. Ma a questo si aggiunge anche il rischio di esaltare ancora di più il nervosismo e provocare reazioni molto gravi a causa del sentirsi braccato da parte dei nemici.
La strategia degli Stati Uniti della Corea del Sud, molto più pragmaticamente, potrebbe essere quella di far capire al leader della Corea del Nord che i tempi sono maturi per una fine delle provocazione e per tornare a più miti consigli. Mantenere questo stato di tensione continua nella penisola coreana e nel Pacifico può aiutare il Pentagono a tenere sotto osservazione la Cina e ad armare Corea del Sud e Giappone, ma rischia, inevitabilmente di di trasformarsi in un vicolo cieco in cui né gli Usa né i suoi partner vogliono finire. In primis per l’enorme spesa statale da versare nella Difesa, ma poi anche perché tendere eccessivamente la corda potrebbe condurre al destino ineluttabile di una guerra che vedrebbe come prima vittima proprio la Corea del Sud. Uccidere Kim senza un’exit strategy che coinvolga la Cina, sembra impossibile e controproducente. Ma sembra anche difficile arrivare a un accordo tra Xi e Trump a riguardo. Probabilmente, il viaggio del presidente americano in Asia servirà a chiarire le idee a entrambe le superpotenze.