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Trans Milano: I giorni difficili delle lavoratrici del sesso

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Non riesco ad arrivare alla fine del mese e per la prima volta nella mia vita sono andata a mangiare alla Caritas. Spero che il 14 aprile finisca questa emergenza, anche se poi quello che mi aspetta è sempre la strada”. Gabriella, 32 anni, è una delle trans che a Napoli si prostituiscono per vivere. Paga 300 euro al mese di affitto e per via delle restrizioni imposte dal governo Conte contro il coronavirus è costretta come tutti a rimanere a casa. “Faccio questo lavoro da otto anni, ho cercato altri impieghi, ma nessuno mi ha mai dato una possibilità. Non ho scelta: qui non si assumono trans, siamo discriminate. Certo, non mi piace quello che faccio, sono stata aggredita e rapinata più volte, ma almeno prima della pandemia riuscivo a sopravvivere. Adesso, quando vado in giro, tutti mi evitano come se fossi infetta, come se noi trans fossimo automaticamente delle prostitute e quindi veicolo del virus”.
Essere lavoratrici e lavoratori del sesso nei giorni dell’emergenza del coronavirus non è facile. Pochissime ragazze vanno ancora in strada, visti i rischi di essere denunciate e di contrarre il Covid-19, e in tante non sanno come arrivare a fine mese: non hanno abbastanza soldi per pagare l’affitto o per fare la spesa, e alcune hanno anche dei figli a carico. “La situazione è tragica: pochi giorni fa ci è stato segnalato un caso di quattro ragazze nigeriane vittime di tratta rimaste chiuse in casa senza cibo, perché la madame non vuole farle uscire per paura che si ammalino”, racconta Andrea Morniroli della cooperativa Dedalus, portavoce della Piattaforma nazionale antitratta.
“Le prostitute nigeriane sono totalmente sparite dalla strada: sono fragilissime, spesso non sanno leggere e scrivere, non sanno accedere a strumenti online e non hanno clienti fissi che le cercano. E così non riescono a guadagnare nulla: non ripagano il debito, ma più di tutto non hanno i soldi neanche per mangiare. Diversa è la situazione delle ragazze dell’est, che spesso hanno un ‘protettore’: alcune di loro sono obbligate ad andare in strada anche adesso, mettendo a rischio loro stesse e i clienti. Infine ci sono le prostitute cinesi: anche loro hanno ricevuto l’ordine di stare in casa e di non avere contatti con gli italiani, che ora sono considerati infetti”.
Senza aiuti
Per guadagnare qualche euro, alcune mantengono i contatti telefonici con i clienti: li ricevono a casa, a loro rischio e pericolo, o fanno videochiamate a pagamento. Chi ha più dimestichezza con la tecnologia online si iscrive a siti di incontri e piattaforme dove lavorare attraverso le webcam. “La situazione cambia da ragazza a ragazza”, spiega Morniroli. “Alcune sono più indipendenti, altre fanno molta fatica. In questo momento ci sarebbe bisogno di una misura di sostegno al reddito per chi aveva un lavoro precario, saltuario, in nero, o per chi il lavoro non ce l’aveva, altrimenti queste persone finiranno per sentirsi abbandonate dalle istituzioni”.
La prostituzione in Italia non è illegale, ma neanche legalmente riconosciuta: per questo, le lavoratrici e i lavoratori del sesso non possono avere accesso ad ammortizzatori sociali né ad aiuti economici. “Le misure restrittive contro il contagio hanno colpito anche i lavoratori del sesso”, spiega Pia Covre, ex prostituta e fondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute. “Mentre nei paesi dove il lavoro sessuale è riconosciuto come lavoro i governi possono mettere in campo degli aiuti economici, in Italia l’emergenza in cui si trovano queste persone sarà totalmente ignorata. In più, quasi tutte le unità di strada hanno interrotto le attività e operano solo telefonicamente: molte ragazze finiscono per rivolgersi alla Caritas o alle banche alimentari per chiedere aiuto”.
In tutta Europa, le associazioni chiedono ai governi aiuti anche per questa categoria
Jana, 51 anni, due figli, è quella che si definisce una “prostituta consapevole”. Vive a Bologna, dove da sei anni si prostituisce nel suo appartamento. In questo momento però ha tolto tutti gli annunci online, per non diventare veicolo della malattia e per paura di eventuali controlli. “Il rischio di una sanzione o di un procedimento penale è altissimo”, racconta. “Il mio timore è che un uomo mi contatti e che poi si presenti la polizia. Certo, guadagnare mi farebbe comodo, ma ho la fortuna di aver messo da parte abbastanza, e poi ho alcuni amici che mi aiutano. Tante colleghe invece sono in una situazione di tale difficoltà che non hanno scelta: siamo libere professioniste e doniamo amore, ma lo facciamo senza nessuna garanzia. Il nostro mestiere non è tutelato”.
In tutta Europa, le associazioni per i diritti di lavoratrici e lavoratori del sesso chiedono che i governi includano nelle manovre di sostegno all’economia anche questa categoria. In Italia, il Comitato per i diritti civili delle prostitute ha lanciato una petizione per chiedere aiuti economici, mentre in Irlanda la Sex workers alliance ha attivato un crowfunding per sostenere chi lavora nel settore, raccogliendo finora più di 13mila euro. Anche in Francia il Syndicat du travail sexuel si sta battendo affinché le prostitute siano tutelate in questa emergenza, e sul sito ha pubblicato un decalogo per chi non può permettersi di smettere di lavorare: tra le precauzioni c’è quella di disinfettarsi le mani prima e dopo il rapporto, rifiutare clienti che presentano sintomi influenzali ed evitare ogni contatto con la saliva.
Chi ce la fa e chi no
Non tutte le lavoratrici e i lavoratori del sesso sono però colpiti allo stesso modo dalla quarantena. “Il Covid-19 è apparentemente molto democratico e non fa distinzioni tra poveri e ricchi”, spiega Porpora Marcasciano, presidente del Movimento identità transessuale (Mit). “La verità però è che i più fragili si ritrovano ancora più esposti alle intemperie della precarietà, mentre chi prima guadagnava bene riesce in qualche modo a cavarsela”.
È il caso di alcune escort e gigolò che lavorano nel settore della “prostituzione di lusso”. Tra loro c’è Roberto Dolce, in arte Roy Gigolò, uno dei più conosciuti in Italia. Marchigiano d’origine, Dolce lavora in nove città, da Milano a Roma, da Napoli a Torino. “Ho iniziato vent’anni fa: facevo lo spogliarellista in discoteca, quando una donna mi ha pagato semplicemente per far ingelosire suo marito. Allora ho capito che poteva diventare una professione”. Dolce guadagna in media diecimila euro al mese, a volte anche di più. In questo periodo non sta lavorando e ne approfitta per rifare il suo sito: “Per fortuna ho dei soldi da parte, sono in una situazione privilegiata”.
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Anche Manuela, 29 anni, di Bologna, ha dovuto modificare il suo stile di vita a causa della pandemia: “Preferisco non ricevere i clienti a casa: organizzo solo videochiamate erotiche a pagamento”. Manuela prima lavorava in un’azienda, aveva un buono stipendio, ma voleva una vita diversa: “Ho provato a mettere un annuncio su un sito di incontri, e da lì è cominciato tutto. In media il guadagno è alto e anche in questo periodo non faccio fatica a vivere, anche se gli introiti sono calati. Certo, mi piacerebbe essere considerata come ogni altra libera professionista”.
La pandemia, come è successo per altre categorie di lavoratori, ha svelato disuguaglianze e fragilità. L’unica possibilità di mettersi in regola per chi fa un lavoro sessuale è aprire una partita iva, dicendo di essere massaggiatrici o lavoratrici del settore del benessere. Chi ha detto esplicitamente di fare un lavoro sessuale ha ricevuto sempre la stessa risposta: non è un settore regolamentato, quindi niente partita iva. “E così siamo state tagliate fuori anche in questa emergenza”, conclude Manuela.
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