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Stupro su Facebook: “La vendetta del mio ex mi ha rovinato la vita. Ma ora io combatto”

La testimonianza di Marta, vittima del revenge porn che si è ritrovata immagini private su gruppi chiusi e  account fittizi a suo nome in cui appariva nuda. E che ha deciso di denunciare l’aggressore. Per uscire dall’inferno e perché vuole che la sua sofferenza non sia inutile

“La mia vita era cambiata già prima, con un uomo pessimo da cui sono andata via e che si è vendicato in mille modi. Poi hanno tentato di distruggermi, ma non gliel’ho data vinta. Adesso è in corso un complesso processo penale. Spero che quel mostro finisca in galera. E questa è la mia storia”. A proposito di brodi di coltura dello stupro, di cyberbullismo a sfondo sessuale e di quei gruppi privati misogini e sessisti che infestano Facebook.

La chiamano revenge porn, la condivisione sui social (e su Telegram e Whatsapp) di scatti di vita intima di coppia da parte di ex fidanzati meschini e dei branchi che riescono ad aggregare online. Per rappresaglia, senza nessun consenso femminile. Parecchie donne, messe alla gogna su Internet, meditano ogni giorno di farla finita. Temono di essere entrate in un tunnel della vergogna senza uscita. Credono di dover espiare una colpa arcana. Si sentono gli sguardi morbosi estranei puntati addosso.

Le loro foto rubate galleggiano e proliferano ormai in ogni anfratto della Rete e in poche trovano la forza di reagire, di denunciare. Marta, un po’ più di trent’anni (solo il nome è di fantasia) è una di queste eccezioni: “Ho convissuto con un uomo. Lo amavo moltissimo. Era geloso e irascibile, ma lo chiamava amore. Diceva che era geloso perché mi amava troppo. Era iscritto a una serie di gruppi Facebook più o meno segreti. Passava tantissimo tempo attaccato al cellulare. Ero infastidita da questa sua ossessione per Facebook, ma di tanto in tanto mi faceva vedere i contenuti. Ancora non si parlava di donne e di sesso, o forse me lo ha tenuto nascosto, ormai non so più dirlo”.

Il rapporto tra i due si logora e la ragazza decide di lasciarlo: “La situazione si fa subito oscura. Lui comincia a contattare chiunque potesse conoscermi riversando bile, odio e insulti. Inizia a minacciarmi di utilizzare le foto intime che aveva scattato nei due anni trascorsi insieme se avessi osato raccontare di lui. Io taccio, non proferisco sillaba. Una mattina però mi chiama un mio conoscente, dicendomi: “Guarda che mi è arrivata una tua richiesta d’amicizia su Facebook, ma con un altro tuo profilo, pieno di scatti non proprio edificanti. Sei davvero tu quella?”.

È questo il prologo del suo inferno: “Diciassette account con il mio nome e cognome, affollati sia di foto prese dalla mia pagina Facebook ufficiale che dal suo cellulare. E queste ultime contengono anche scene di sesso, o con me nuda: immagini immortalate dal suddetto nel corso della nostra relazione sentimentale. Diciassette profili falsi in un solo mese”. Fantasmi maligni, contagiosi e per lo più anonimi sbattono le loro mani luride intorno alla preda: “Io li segnalo uno dopo l’altro. Mi faccio aiutare dagli amici. E si trasformano tutte le mie abitudini quotidiane. Ogni mattina, per esempio, ora cerco ossessivamente le mie generalità su Facebook. Trovandomi spesso riprodotta come natura mi ha fatta e bersagliata da commenti sprezzanti: umiliata e offesa”.

Cronaca di una spirale perversa: “A quel punto il mio ex prende a pubblicare le foto su un gruppo Facebook. Me lo riferisce una persona fidata a cui era stato chiesto: “Ma quella non è la tua amica?”. Cliccando su un link ben visibile si è rimandati a un post farcito di mie istantanee, corredate da storie inventate di sana pianta su miei presunti rapporti lascivi e su un mio fantomatico passato di pornostar involontaria. Non mancano dettagli inerenti la mia famiglia e il mio indirizzo di casa, con tanto di street view di Google Maps. Lui intanto se la ride e mi dipinge come una sgualdrina. Parallelamente, continuano a giungermi messaggi e richieste di amicizia da perfetti sconosciuti con battute triviali, allusioni, foto mie, foto loro (o meglio dei loro genitali), ingiurie di ogni genere, minacce e richieste esplicite di sesso. Almeno un migliaio i contatti di questo tenore. Io che su Facebook nemmeno li ho mille amici”.

Facile, in teoria, affidarsi alla legge: “Alla fine vado in questura, all’anticrimine. Non alla polizia postale: gli uffici del mio capoluogo di provincia sembrano inaccessibili e se chiami spiegando l’accaduto devi innanzitutto illustrare come funziona Facebook e i suoi gruppi. Provo a denunciarli questi gruppi, ma incorro in risposte disarmanti come “Eh ma lei non doveva farsi fare queste foto”. Alla fine cambio questura; ma anche lì sulle prime fanno storie, questa volta adducendo ragioni giurisdizionali perché io risiedo da un’altra parte. Eppure Internet non è una città, non ha localizzazioni geografiche precise e se devi spiegarlo alla Postale, è grave”.

La via crucis dura mesi (“ero distrutta, tutte le persone che mi conoscono mi hanno vista fare sesso, e non per mia scelta. Ho perso molti pseudo-amici”) finché un tribunale non emette un’ordinanza e l’ex di Marta si vede sequestrare tutti i devices connettibili a Internet.

Ha inizio un procedimento giudiziario con diversi capi d’accusa: dalla sostituzione di persona alla diffamazione ai maltrattamenti fisici. Il gip dispone il suo divieto di avvicinamento alla ragazza che millantava di amare. E il processo è ancora in corso. Le foto di Marta finiscono nel frattempo in uno sconcertante “archivio”, in un “dossier” tuttora scaricabile da Google di video e immagini hard che hanno come “star” anche minorenni.

Mittenti, i partner vendicativi; destinataria, l’orda famelica del web; esecutori materiali, nugoli di hacker della generazione dei millenials, magari di buona famiglia. “Io ero in una di queste directory”. E segnalare non è semplice. Google e Dropbox eliminano quasi sempre i file contestati, una volta descritto il contenuto.

Facebook invece non li rimuove quasi mai i suoi gruppi più abietti, e quando prova a farlo, quelli rinascono di nuovo sotto ritoccate spoglie. Per perseguirli bisognerebbe aprire rogatorie internazionali. Marta ha visto molto da vicino l’occhio di uno dei più terribili ciclopi del nostro tempo. Si è salvata perché è di temperamento forte, ha una famiglia che la ama e non la molla mai e ha una “fede brutale che invece di spingermi al suicidio mi tiene in piedi in questa guerra, per ottenere giustizia per me e le altre”.

Per tanti mesi non ha trovato però il coraggio di uscire di casa, ha avuto paura “perché quegli imbecilli depravati sapevano dove abitavo e non pochi sono arrivati fin sotto casa mia. Ho dovuto imparare a difendermi, anche nella vita reale, da chi mi urlava “troia” per strada. Ho cambiato molte abitudini, non faccio più lavori a contatto col pubblico per timore di essere riconosciuta. E se qualcuno mi chiede l’amicizia su Facebook, invece di pensare di potergli piacere sospetto che voglia accedere al mio privato per brandirlo contro di me”.

Non si fida più degli uomini, non ha una relazione, “loro non vogliono una donna con un peso così grande sulle spalle. E io non sarò serena fino a quando il mio ex non sarà punito”. Marta combatte anche per le tante ragazze più giovani che stanno rivivendo la sua stessa odissea ancestrale, nonostante vada in scena su potenti, candidi computer di ultimissima produzione: “Ho bisogno di sapere che la mia sofferenza aiuterà altre come me”. Nel nome di chi non ce l’ha fatta e di tragedie da scongiurare come quella di Tiziana Cantone

fonte: http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/01/24/news/stupro-sul-web-una-vittima-vendetta-dell-ex-profili-falsi-su-Fb-1.294054?ref=huffpo

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