Il momento della resa dei conti per Afrin si avvicina. Erdogan pronto a schierare i carri armati e iniziare l’attacco finale dell’enclave curda e promette che l’offensiva delle sue truppe non si fermerà se non dopo aver distrutto la minaccia “terrorista”. Intanto nell’ultima roccaforte nelle mani dei ribelli, la battaglia tra le forze di Bashar el-Assad e le milizie non si ferma

Nei prossimi giorni i carri armati turchi saranno schierati attorno ad Afrin e comincerà l’attacco finale, ha annunciato Recep Tayyp Erdogan. Il presidente turco continua a usare toni aggressivi, promettendo che l’offensiva delle sue truppe non si fermerà se non dopo aver raggiuto il suo risultato, cioè spazzar via ogni minaccia “terrorista”. In questa categoria Erdogan comprende sia i jihadisti del sedicente Stato Islamico sia i miliziani curdi delle Ypg, le unità di protezione popolare che Ankara considera parenti strette del Pkk fuorilegge.
L’interrogativo è obbligato: davvero la Turchia ha intenzione di attaccare i militari siriani, impegnati a difendere i loro confini, rischiando un’escalation difficile da controllare? La risposta più facile sembra negativa, quanto meno se si ragiona sul principio che in guerra chi alza la voce in realtà non vuole alzare il tiro. E Ankara sta usando toni reboanti, al punto da intimare persino agli americani di lasciare al più presto Manbij, la prossima tappa dell’operazione “Ramoscello d’ulivo”.
Ma l’“uomo forte” della Turchia sembra deciso ad andare avanti, spinto anche dal proprio riflesso nazionalista, che impone la ricerca di minacce esterne in mancanza di soluzioni politiche per i problemi interni. E nonostante gli inviti della comunità internazionale, Erdogan non intende mettere in discussione la sua linea di condotta per affrontare la spaccatura del Paese o anche solo rallentare nella repressione di ogni voce dissenziente.
L’intervento militare di Ankara sta sottoponendo a una dura prova i rapporti già sfibrati non solo con gli Stati Uniti ma anche con la Russia, alleato chiave di Damasco.
In un certo senso il presidente turco è ostaggio di se stesso. Ma non del tutto diversa è la posizione di Bashar Assad, rientrato nei giochi grazie al sostegno russo: neanche lui può fare un passo indietro, accettando che siano i turchi a operare con tank e truppe di terra dentro i confini siriani. Tanto più che Damasco sembra in qualche modo rassegnata ad accettare l’esistenza del Rojava, magari concordandone in futuro il livello di autonomia. Più che adesione alle richieste dei curdi, è un approccio di realismo, legato anche alla presenza di almeno dieci basi militari americane nella zona curda, difficili da sloggiare.
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Alla fine, sarà nelle sale del Cremlino che si discuterà di Afrin e Manbij. Vladimir Putin è un alleato di ferro di Assad, ma ha comunque rinsaldato l’amicizia con Erdogan: sarà lui a mediare, per evitare uno scontro diretto. Un accordo fra turchi e siriani, con la supervisione russa, potrebbe vedere sacrificati, ancora una volta, i sogni di autonomia dei curdi. Ma la presenza dei marines nel Rojava, a meno di sorprese dall’amministrazione Trump, mantiene la partita ancora aperta.
Intanto anche a Ghouta, considerata l’ultima roccaforte nelle mani dei ribelli, la battaglia non si ferma ed è salito a 98, tra cui 20 bambini e 14 donne, il bilancio delle vittime delle ultime ore dei raid aerei e di artiglieria governativi siriani sulla regione a est di Damasco, assediata dalle truppe lealiste e controllata da gruppi armati delle opposizioni. Il bilancio dell’Osservatorio siriano per i diritti umani arriva a 194 civili uccisi da domenica. E queste cifre drammatiche – sottolinea l’Osservatorio – sono destinate ad aumentare perché i feriti sono circa 470, alcuni dei quali sono in condizione critiche. Per le Nazioni Unite “non ci sono più parole” per esprimere lo sdegno dinanzi alle uccisioni e alle sofferenze dei bambini nella Ghouta orientale. “Nessuna parola renderà giustizia ai bambini uccisi, alle loro madri, ai loro padri e ai loro cari”, afferma una dichiarazione diffusa da Geert Cappelaere, direttore regione di Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa