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Roma, il delitto di Talenti: vite spezzate, anima persa un mistero lungo 23 anni

Nel 1994 il cadavere della donna fu trovato in un armadio nella sua casa. Indizi e sospetti sull’amante, fotografo e vicino ai Servizi, poi assolto insieme alla moglie

Una stanza chiusa, un armadio sigillato, un cadavere nascosto. È un giallo claustrofobico, un delitto senza colpevole quello di via Domenico Oliva 8, Talenti. Una truce storia di nera che porta il nome di Antonella Di Veroli, 47 anni, commercialista single, un’inquietante somiglianza con Camilla Shand, una donna schiva, riservata, gentile, assassinata con due colpi di pistola alla testa e un sacchetto di nylon chiuso sul viso domenica 11 aprile 1994. Da chi? Perché?


Due domande che restano senza risposta nonostante un processo concluso con due assoluzioni definitive e un inutile tentativo di riaprire il caso a 17 anni di distanza che si concluderà con un nulla di fatto. Eppure gli investigatori, a suo tempo, erano sicuri di aver imboccato la pista giusta. Tanto sicuri che, presumibilmente, avevano tralasciato tutte le altre. Sono le telefonate a vuoto, come accade spesso, a mettere in allarme i familiari. I cellulari, nel 1994, ancora non esistevano, erano aggeggi grossi come ricetrasmittenti che si portavano a tracolla e quasi nessuno usava, visto che ricevevano in pochissime zone. Preistoria.

Le chiamate all’utenza fissa di Antonella finiscono sulla segreteria telefonica. La donna non risponde e non richiama. Strano. Verso le 20, la sorella arriva a casa della commercialista ma non trova Antonella e alla fine se ne va. Un’ora e mezzo più tardi, sulla scena si presentano l’ex compagno e socio in affari Umberto Nardi Nocchi assieme al figlio e a un amico, ispettore di polizia. Si, in casa è successo qualcosa: nell’appartamento c’è un gran disordine, in contrasto col carattere metodico e preciso di Antonella. Scarpe sparpagliate sul pavimento, un tubetto di colla su un mobile, due scatole di sonniferi in camera da letto, un orologio che non è stato riposto nel solito cassetto e vestiti buttati alla come capita. Di Antonella nessuna traccia.

Nardi Nocchi torna a via Domenico Oliva a mezzanotte, sperando di trovare la sua ex compagna: niente da fare. La mattina dopo, la sorella e il cognato della commercialista si mettono i guanti di gomma per non contaminare la scena e decidono di rovistare l’appartamento da cima a fondo. Frugano tra abiti, pellicce, gioielli: a prima vista non manca nulla. Finalmente, dopo aver passato al setaccio tutte le stanze, arrivano all’armadio della camera da letto. Una delle ante non si apre: qualcuno l’ha trasformata in un contenitore ermetico usando il mastice. Alla fine, dopo molti sforzi, riescono ad aprirla e restano agghiacciati: sotto un mucchio di abiti accatastati alla rinfusa spunta un piede di donna.

La vittima indossa un pigiama di cotone e, come si scoprirà dagli esami tossicologici, ha preso i sonniferi prima di essere uccisa. Nessuna traccia di rapporti sessuali. Sulla testa ha due piccoli fori di proiettile, sparati con una pistola calibro 6,35, presumibilmente una di quelle Beretta che andavano di moda negli anni 50 per la difesa personale e che, incredibilmente, non l’hanno uccisa. Il primo, alla tempia, non ha perforato la scatola cranica, il secondo si è scheggiato sull’osso frontale senza trapassarlo. L’assassino ha usato un cuscino come silenziatore, appoggiandolo sulla faccia della vittima prima di fare fuoco e una vicina racconterà di aver sentito, verso le 22, un tonfo sordo seguito da passi precipitosi. Antonella Di Veroli è morta per asfissia, soffocata dal sacchetto di nylon.

Il killer l’ha trascinata per le caviglie, l’ha chiusa nell’armadio e ha sigillato tutto per rallentare la scoperta del cadavere. L’unica cosa certa è che non si tratta di uno sprovveduto, ma di qualcuno che conosce bene le procedure investigative e sa quanto sono importanti le prime ore. Insomma, uno del mestiere. Nel mirino degli inquirenti, all’inizio, finiscono due persone: Umberto Nardi Nocchi, l’ex socio, e il fotografo Vittorio Biffani che sembra il colpevole ideale. Ha 47 anni, un Nos, Nulla osta di sicurezza che viene rilasciato dai servizi segreti agli agenti sotto copertura, e ha avuto una tempestosa relazione d’amore con Antonella. Non basta: la donna gli ha prestato 42 milioni e la somma non è mai stata restituita. A completare il quadro c’è un guanto di paraffina positivo, anche se si scoprirà che si tratta di un errore: il fotografo non ha tracce di polvere da sparo sulle mani.

Biffani viene rinviato a giudizio e processato

assieme alla moglie, accusata di aver minacciato e tentato di estorcere denaro all’ex amante del marito con una serie di telefonate falsificate e registrate da usare come arma di ricatto. Tesi suggestiva ma basata sulla fuffa. Il dibattimento inizia nel 95 e dura due anni. Assoluzione piena per la coppia, ribadita in appello e sancita definitivamente dalla Cassazione. Il 4 luglio del 2003 Vittorio Biffani muore d’infarto. Un altro capitolo del lungo elenco romano di omicidi mai risolti

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