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Quirinale, governi e presidenti eterni tormenti

AGI – E chi se la dimentica la faccia di Oscar Luigi Scalfaro mentre davanti a lui giurava, con un sorriso stampato, Silvio Berlusconi? Le memorie storiche della Repubblica, o anche gli studiosi o i semplici appassionati degli archivi in bianco e nero, asseriscono che poi non fosse molto diversa da quella di Antonio Segni di fronte a Moro ed al suo primo governo di centrosinistra (quello storico, in cui il centro era preponderante rispetto alla sinistra). Cossiga, quando vedeva una brutta aria, convocava i litiganti al Quirinale alle 11 di sera: faceva molto atmosfera. Se poi si arrivava alle consultazioni ufficiali approntava il buffet ed offriva un bicchierino di porto ai giornalisti, così poteva dire quel che ne pensava. Ne uscivano delle cronache molto divertenti.

Napolitano, se un ministro sostitutivo di un altro non gli andava a genio, lo faceva giurare quasi in castigo, in segreto, nella Sala della Pendola (vale a dire l’angolo più remoto del Palazzo). Trasudava apparentemente intimità, quell’ambiente raccolto e difficilmente raggiungibile, e invece era freddezza. Agli altri era toccato lo splendore di ori e rossi pompeiani del Salone delle Feste, ed il solo nome basti.

I dodici Presidenti

Dodici sono stati i Presidenti della Repubblica, includendo anche il provvisorio ma presente De Nicola e considerando unico il bisvalido Napolitano, ed il numero ha un non so che di cabalistico. I governi, in compenso, molti di più. A contarli uno ad uno, ma c’è il rischio di vedere le dita che si incrociano come quelle di Roger Rabbit, dovrebbero essere 67.

Tutti frutto di tormenti e pensamenti, al Quirinale: quale più e quale meno. L’unico in cui il Colle c’entra solo di sguincio è il primo in assoluto, il De Gasperi I. Ma solo ed unicamente perché nel frattempo il Padre della Patria aveva assunto, causa referendum del 2 Giugno, il titolo di provvisorissimo capo dello Stato, e se ne stava al Viminale a minacciare garbatamente i Savoia che non volevano sloggiare: continuiamo così ed uno di noi stasera finisce dietro le sbarre. Mollò la carica più che temporanea di lì a tre settimane, e quindici giorni dopo anche quella di Presidente del Consiglio. I nuovi tempi esigevano un reincarico, che Enrico De Nicola prontamente accordò in un men che non si dica. Il problema non era mica quello, erano i comunisti nell’esecutivo.

A maggio del ’47 venne risolto con il De Gasperi IV (il III visse poco, e di luce riflessa). Ma attenzione, non è che il vecchio liberale e laico De Nicola avesse, come dire, abbozzato di fronte alle manovre democratico-cristiane. Lui la svolta o non la voleva, o non la voleva in quel modo.   

Insomma, non voleva la crisi, e per far dispetto a tutti prima di accettare un nuovo esecutivo De Gasperi dette addirittura l’incarico a Francesco Saverio Nitti, e poi ancora a Vittorio Emanuele Orlando. Era l’avvisaglia di quel conflitto latente e in fondo mai risolto sui poteri del Colle nella nomina o selezione del capo del governo, di fronte alle esigenze delle forze parlamentari.   

I governi di Einaudi

Sette, per proseguire con i numeri della cabala, furono i governi tenuti a battesimo da Luigi Einaudi, il Presidente Notaio. Notaio mica tanto. Passò dal De Gasperi IV al De Gasperi VIII poi Pella Fanfani e Scelba. È vero: annotava ed annuiva. Ma solo fino a quando aveva di fronte il vero uomo forte della situazione. Del resto De Gasperi era un cattolico liberale e lui un liberale non avulso dal cattolicesimo: ce n’era abbastanza per intendersi al volo. Quando però l’altro lasciò, venne fuori che anche un notaio, nel redigere l’atto, alla fine può far di testa sua. Einaudi, che di economia ci capiva e voleva gestirne un pezzo per interposta persona, impose a Pella la divisione del dicastero omonimo. Nacque il dualismo Bilancio-Tesoro, risolto solo tanti ma tanti anni dopo, da Napolitano. Il notaio non solo certifica, ma crea i precedenti. 

Le scelte di Gronchi

Gronchi iniziò con Scelba e finì con Fanfani IV. In mezzo Zoli e un secondo Segni, ma soprattutto Tambroni. Sinistra democristiana lui, sinistra democristiana Gronchi. Risultato: monocolore con l’appoggio esterno del Msi. L’iniziativa è stata presa personalmente dal Capo dello Stato, che pure durante il fascismo si era ridotto a fare il commesso viaggiatore pur di mettere insieme il pranzo con la cena. Il fatto è che lui stesso è stato in Urss a parlare di distensione internazionale e a Washington non hanno approvato. L’Osservatore Romano mette in guardia dall’apertura ai socialisti. Antonio Segni non ne può più e lascia Palazzo Chigi. Rinuncia ad un incarico, seguito da Giovanni Leone. La Dc addirittura è sconvolta – essa stessa, che è la quintessenza dell’unitario – dai venti di una scissione. Il Quirinale decide allora per lo strappo solenne. Seguiranno i tumulti di Genova. Ma soprattutto seguirà dopo non molto il centrosinistra. Agli storici il dilemma di stabilire se si sia trattato di un machiavellico disegno che mise tutti nel sacco o, più semplicemente, della Nemesi.

I due anni di Segni

Due anni resistette al Quirinale Antonio Segni, giusto il tempo di varare tre governi: due Moro ed un Leone. Della faccia del Presidente si è accennato, all’alba del Sol dell’Avvenire. Non c’è bisogno di altro, per capire come era andata.

I notai della Repubblica

Con Saragat e Leone, in tempi di scoperta della formula balneare dell’esecutivo, in media un governo l’anno, fino al quinto Moro ed il quarto Rumor, per arrivare al quarto Andreotti. Sono forse gli anni in cui il Quirinale veramente si fa sede del notaio della Repubblica: vuoi per il peso politico di chi vi abita, vuoi per quello del partito che lo ha sponsorizzato. Ma soprattutto è una questione del peso della persona del Presidente del Consiglio. 

 È lo schema, in fondo, già visto con De Gasperi e Einaudi: se Palazzo Chigi è forte e i partiti rappresentati in Parlamento pure, è difficile per il Quirinale giocare all’attacco. Se poi si parla di Moro e Andreotti, non c’è proprio partita. Rumor, da parte sua, è l’uomo del monocolore democristiano. Più chiaro di così. Ma sta per iniziare l’epoca dei presidenti interventisti.    

La ventata di Pertini

Interventista era Sandro Pertini, ma a modo suo. Quasi gramscianamente, perché arrivato al Quirinale capì subito che la centralità sua e della sua magistratura non sarebbero dipese dal rispettivo peso nella politica (battaglia persa in partenza), ma nella società. Occupò quindi questa e si disinteressò dei processi istituzionali. Anche lui dette il ‘la’ a tanti esecutivi, e di peso (quinto Andreotti, quinto Fanfani, due Cossiga due Spadolini ed un Forlani; infine il Craxi I). Ma poi andava a Madrid o in Irpinia come a Vermicino e il centro del palcoscenico era il suo. Gli altri soffrivano. Craxi, che lo conosceva bene, infatti lo accettò al Quirinale senza troppi entusiasmi. Il momento più alto fu il Caso P2. A liquidare una delle fasi più buie della storia repubblicana fu chiamato a Palazzo Chigi un laico, ed era la prima volta. Ma ancora adesso ci si ricorda non del lavoro complicato di Giovanni Spadolini, quanto del messaggio di fine anno di Pertini del 1981.

Cossiga la fine di un’epoca

Uguale fu Cossiga: cinque anni zitto a prendere nota del volere altrui, due a far come gli pareva. Le cronache ricordano il secondo Craxi e l’ultimo Fanfani (il sesto), l’unico Goria e il solo De Mita. Soprattutto l’ultimo Andreotti: era proprio finita un’epoca. La prassi e la Costituzione materiale vennero stravolte, il Capo dello Stato litigava con maggioranza e opposizione, tentava una appellatio ad populum e assisteva al dissolvimento del quadro politico nazionale e internazionale. Fu il primo a capire che il Muro di Berlino avrebbe trascinato nel suo crollo molte altre cose. Non si mescolò più di tanto con i vecchi riti: il mondo si fa vecchio, lasciatelo morire. Infatti lui si rivolgeva direttamente alla gente. 

Scalfaro e i governi del Presidente

Con Scalfaro tutto cambia. Craxi, al declino ma ancora potentissimo, gli comunica che dovrà scegliere il Presidente del Consiglio, nel 1992, tra Amato De Michelis e Martelli, ma “non necessariamente in ordine alfabetico”. E lui invece sceglie Amato. Poi fu suo, non solo formalmente, l’incarico a Ciampi e nacque la formula del Governo del Presidente, trionfo della nuova Costituzione materiale. Con Berlusconi non si poteva vedere, è acclarato. Ma dopo il 27 marzo 1994 Scalfaro infrange ogni prassi e fa le consultazioni non per partiti, ma per poli, In 24 ore il Cavaliere è incaricato. Si presenta con la lista dei ministri, e Scalfaro a questo punto gliene boccia uno; Previti, l’avvocato personale indicato alla Giustizia. Dopo otto mesi di sgarbi, arriva Dini (scelto da Scalfaro, logicamente). Ma il Cavaliere non fu l’unico a subire il trattamento, se è vero che il giorno dopo l’incarico a D’Alema piombò al Quirinale un Giovanni Paolo II furente. “Affari nostri”, gli rispose in sintesi l’Uomo del Colle, cui non mancava il fegato.

Ciampi erede di Einaudi

Ligio invece all’eredità einaudiana si professò sempre Ciampi: con Amato e Berlusconi, che gli riempirono sette anni non tutti passati tranquillamente. Con il secondo ebbe scontri non indifferenti, ma solo dopo averlo nominato. Le urne del resto avevano deciso in modo incontrovertibile.

I tempi di Napolitano

Monti invece fu invenzione di Giorgio Napolitano, anche in questo caso in tempi burrascosi. Letta in buona parte portava il suo sigillo, ma non gli bastò. Renzi fu così apertamente difeso dal Colle da far pensare che l’endorsement quirinalizio fosse stato dato con volenteroso entusiasmo, ma poi i rapporti si guastarono. E Mattarella, da allora, ha sempre insistito su un punto: fate voi, ma attenti: se tergiversate, se perdete tempo, se in una parola fate i furbi sciolgo tutto e arrivederci. È valso, dopo la parentesi transitoria di Gentiloni, con i gialloverdi e poi i giallorossi,cioè con i due governi Conte. Vale anche questa volta.

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