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Pd-Bersani, l'ultima trattativa: così Renzi apre alla sinistra Renzi e Bersani in una foto d'archivio A

ROMA. I contatti sono in corso, anche se in pubblico nessuno cede di un millimetro. Si lavora a un accordo unitario per i 341 collegi uninominali. Lo stesso candidato per Renzi, Grasso, Pisapia, Fratoianni, Civati. Accordo tecnico, senza voli pindarici. Sulla base di una cornice di programmi. Non il quadro perché quello è impossibile. Come dice Arturo Parisi: “Bisogna rendere manifeste le cose che ci uniscono”. Parisi rimane l’unico vero consigliere e confidente di Romano Prodi.
Dopo il grido di allarme raccolto da Repubblica, il Professore lo cercano tutti. Perché “copra” e sostenga questa difficile operazione. La prima mossa tocca a Matteo Renzi, che domani riunisce la direzione del Pd. Il segretario ha parlato a lungo con Dario Franceschini e Andrea Orlando, i ministri che spingono per un’alleanza con tutti dentro. Gli ha garantito alcuni passi indietro rispetto alla strada dell’autosufficienza: “Proporrò un accordo significativo e strutturato anche a Bersani. Non parlerò più dei mille giorni e dei provvedimenti del mio governo. Parlerò di quello che si può fare non di quello che è stato fatto”. A partire dal Jobs Act: “Senza abiure, ma se si vuole ragionare di cosa non ha funzionato facciamolo. Per esempio: sui contratti a tempo indeterminato, che devono ancora crescere”. Questa è la “cornice” di cui Franceschini discute con i suoi interlocutori. Con Renzi prima di tutto. La linea del ministro della Cultura è chiara: “A destra hanno trovato il modo di parlare a mondi diversi, di fare campagne diverse, di presentare candidati premier diversi, ma, nei collegi, di sommare i voti anziché sottrarseli a vicenda. Noi possiamo fare lo stesso”. I leader si stanno sentendo. Intanto dentro il Pd perché la direzione si tiene tra poche ore. C’è la possibilità di un voto unanime sulla relazione del segretario, se contiene le aperture promesse. Ma c’è anche il rischio concreto di una rottura se torna l’eco di imprese solitarie, di un Renzi alla Macron. A quel punto le minoranze di Orlando e Michele Emiliano presenteranno un loro documento (già pronto) di critica alle politiche renziane degli ultimi anni. “Per distinguere nettamente le responsabilità”, dicono gli orlandiani.
Il governatore pugliese viene descritto sul piede di guerra o meglio, di nuovo con un piede fuori dal partito. Per lui è difficile resistere alla calamita di Piero Grasso, collega magistrato e amico. I due si telefonano continuamente. Spesso è il presidente del Senato a chiamare Emiliano per chiedergli come muoversi nel mare ondoso della politica, ben diverso da quello delle istituzioni. Ed Emiliano lo guida: “Hai sbagliato con quella dichiarazione sul Pd”, gli ha detto l’altro giorno.
Come spiega Parisi ad Affari italiani, l’accordo tecnico nei collegi può diventare qualcosa di più concentrandosi sui tratti comuni: la politica europea, l’immigrazione, lo ius soli, i diritti civili, l’ambiente. La “cornice”. Lasciando fuori i punti di contrasto. Eppoi si reggerebbe sulla convenienza, diciamo la verità. Per questo Renzi non crede che sarà domani la giornata decisiva, però entro due settimane la situazione sarà sotto gli occhi di tutti. “Quando ciascuno, noi compresi – dice un renziano – si farà due conti sulle chance di vittoria collegio per collegio”. Con l’obiettivo di fermare quelli che nei suoi colloqui privati Renzi chiama i “barbari” riferito ai leader non agli elettori. Di bloccare l’ascesa di Beppe Grillo e Matteo Salvini.
Il segretario giura che ci proverà. Facendosi poche illusioni. La coalizione più realistica, nel quartier generale renziano, viene confinata ai nomi di Emma Bonino e Giuliano Pisapia “che con Bersani e D’Alema non andrà mai”. Le reazioni pubbliche di Mdp in effetti continuano a essere gelide. “Archiviare il renzismo”, dice Roberto Speranza. Richiesta irricevibile a Largo del Nazareno. Vasco Errani, parlando con gli amici, non è meno severo: “Il sistema era tripolare, ma adesso i poli sono due e mezzo. E il mezzo è la sinistra. Non c’è politicismo che tenga, non bastano gli appelli a fermare i populisti. Bisogna riprendere i voti e ci vogliono atti concreti. Questo è un problema molto più grande di un tavolo di trattativa per i collegi “. Ma un tavolo è necessario, se c’è la volontà di parlarsi. E se il problema non è solo ed esclusivamente la sorte di Renzi, come pensano tanti nel Pd. “Noi indicheremo un metodo di lavoro e un percorso. Per provare a fare tutti un passo avanti “, dice il vicesegretario Maurizio Martina. Senza guardare indietro. Modello centrodestra, come sottolinea Franceschini. In quel campo chi parla più di uscita dall’Euro o della Le Pen, le bandiere leghiste? “La partita ce la giochiamo solo se stiamo insieme. Altrimenti è cupio dissolvi “, avverte Francesco Boccia, vicinissimo a Emiliano.
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Il filo è sottile e si può spezzare da un momento all’altro per molti motivi. Renzi, nemmeno una settimana fa, ha rilanciato l’obiettivo 40 per cento e il Jobs Act 2. Ovvero, porta in faccia a Mdp. Bersani e D’Alema sanno che la loro ragion d’essere è distinguere politiche e leadership dal Pd renziano. Come collante, resta il pericolo della destra e dei grillini, così plasticamente dimostrato dal voto in Sicilia e a Ostia. In più c’è l’allarme di molti mondi, a cominciare da quello cattolico di base. Basta andare in molte parrocchie per scoprire quanto sia attrattiva la storia umana di Piero Grasso e quanti dubbi ci siano sugli avversari del centrosinistra. I padri nobili, da Prodi a Veltroni a Enrico Letta, sono pronti a intervenire ma solo se si apriranno degli spiragli reali, se i “figli” mostreranno di avere a cuore la famiglia unita. La loro parola è in grado di superare le rigidità dei vari campi. Non farà presa su D’Alema e Fratoianni forse, ma non lascerebbe indifferente Pierluigi Bersani. L’accordo per stare uniti nei collegi è tutto da costruire. Ma se gli ambasciatori si parlano, il tentativo rimane in piedi.

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