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Patrizio Parrini

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Intervista al tennista degli anni 80

Chiamatela pure nostalgia dei ruggenti anni ottanta fiorentini. A mezzanotte si andava a Viareggio a mangiare le paste, si passava il tempo a organizzare feroci tornei di calcio tra le compagnie delle piazze cittadine, si aspettava (spesso invano) che le ragazze più belle scendessero dal piedistallo e considerassero anche chi non era proprio al top. Patrizio Parrini faceva invece parte della ristretta élite di quelli che molto potevano. Riccioli castani, atletico, campione di tennis. Forse non altissimo, ma bisognava star lì a sottilizzare. A 21 anni guadagnava 200 milioni di lire l’anno, tra tornei e sponsorizzazioni.
Era il 1980 ed il giovane Parrini girava in Porsche, difficile passare inosservato… «Sì, la macchina si faceva notare. Eppure, anche se ci credono in pochi, io sono sempre stato uno che ha preso molto sul serio la vita da atleta, e nei quattro anni di ritiro a Formia non ho sgarrato mai. O quasi». Sarà pure andata così, ma circolano diverse leggende sui suoi trascorsi di ragazzo che poteva permettersi tutto. «Se mi sono divertito? Io rispondo sempre di sì, senza problemi: mi sono divertito e pure tanto. Non mi sono mai fatto mancare niente, è vero, ma se non ti allenavi non potevi essere competitivo, ed io volevo sempre vincere. Ero stato programmato così dal mio maestro Gino Gerli, arrivare primo era un dovere».
A Formia con Parrini c’era pure Panatta. «Ma era come se non ci fosse. Adriano faceva quel che voleva, e se lo poteva permettere per via del braccio che gli aveva regalato madre natura. Un talento unico, mai visto uno così in Italia. Non sono mai riuscito a batterlo». Patrizio, da bambino con una racchetta quasi più alta di lui, inizia a giocare al circolo del Dopolavoro Ferroviario fiorentino di via Paisiello. «C’era tutto, il ping pong, le bocce e pure il cinema. Il bancone del bar era enorme, il doppio di quelli normali. E c’erano naturalmente i campi da tennis, lì ho iniziato a vincere«. Fino a vent’anni Parrini viene trattato da predestinato: strapazza Ivan Lendl, Yannick Noah e Henry Leconte, tutti sono pronti a scommettere su di lui.
Nel 1976, lo stesso anno in cui Panatta si aggiudica il Roland Garros, Patrizio trionfa negli Stati Uniti all’Orange Bowl, il massimo dei tornei giovanili. E poi? «Poi niente». Come niente? «Mi sono fermato, oltre un certo punto non riuscivo ad andare. Gli altri mi sorpassavano, diventavano sempre più bravi, io sono rimasto lì a galleggiare intorno alla posizione 150 del ranking mondiale. Una volta ho toccato il centesimo posto, ma è stato quasi un caso». Parrini è stato una delle prime grosse delusioni del tennis azzurro post Panatta/Barazzutti/Bertolucci. «Quello che non andava l’ho poi capito nel 1984, quando sono volato da Nick Bollettieri (allenatore, tra gli altri, di Agassi, Becker, Hingis, Venus e Serena Williams, ndr) in America. Lì è come se avessi ricominciato a giocare a tennis. Sono ripartito da zero emi sono regalato altre tre stagioni di buon livello, con una impostazione completamente diversa». Il treno, quello importante, però era già passato. «Se avessi affrontato prima il cambiamento magari sarei entrato tra i primi cinquanta del mondo e avrei combinato qualcosa in più nei tornei dello Slam». Ne ha giocati tre su quattro, saltando solo l’Australian Open. «La partita che rivivo ogni tanto mentalmente è la sfida contro lo spagnolo Urbi sul “centralino” del Roland Garros. Potevo vincere e invece persi al quinto set, sono cose che poi ti rimangono dentro. Ho vissuto i cambiamenti più importanti di questo magnifico sport, nei primi cinque anni di carriera giocavo con la racchetta piccola e nei secondi cinque con quella grande, che dava il 30 per cento di potenza in più. Oggi stravedo per Federer, inarrivabile: neanche Sampras aveva la sua classe».
Nel 1988 Parrini smette, si sposa e comincia non ancora trentenne a fare l’imprenditore. «Sempre giocando d’attacco, come quando ero sulla terra rossa o sull’erba di Wimbledon. Serve & volley, come con la racchetta, così negli affari». Con Andrea Pazzagli e Moreno Roggi gestiscce il centro sportivo Zodiac a Tavarnuzze. «Però non insegno tennis, a quello ci pensa mio fratello Walter, che è molto più paziente di me». Eh già, Patrizio si concede solo nelle grandi occasioni. A Montecarlo, per esempio. Nel dorato mondo dei vip lui è di casa, e a volte gli capita di giocare «doppi» di un certo livello. «L’ultima volta io e Nastase abbiamo battuto il principe Alberto di Monaco e Gianni Ocleppo, che in una finale di Davis aveva perso contro Lendl. In linea di massima cerco di evitare di scendere in campo, per via delle ginocchia, che a cinquanta anni mi danno dei grossi problemi». Anche perché devono sopportare venti chili in più rispetto ai bei tempi dell’Orange Bowl… «Mi piace la buona tavola e sono spesso in giro con cene di rappresentanza. E poi mica c’è più Belardinelli (per oltre vent’anni temutissimo istruttore federale, ndr) che mi aspetta in campo il giorno dopo».
Insieme ai chili è arrivata la saggezza del cinquantenne. «Un po’ di soldi me li sono sputtanati negli anni verdi, inutile negarlo, ma ero molto giovane. Ho avuto una gran fortuna: trovare una moglie, Barbara, tollerante, che ha capito come sono fatto. Il nostro matrimonio regge da tanto tempo, abbiamo due figli maschi, Lorenzo e Niccolò, che giocano a tennis solo per divertimento. La scorsa estate ho portato il più grande a Wimbledon, avevo un pass che mi aveva dato Filippo Volandri, e con lui sono entrato negli spogliatoi. Mi ha fatto un certo effetto, mi sono regalato un’emozione dopo tanti anni. In fondo non sono tanti quelli che possono raccontare di essere stati là dentro, nel tempio del tennis, da giocatori veri durante il torneo più prestigioso del mondo».

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