EXITO STYLE

Noi Schiavi del social? il grande genio di mark zuckerberg plagia le menti?


di BENEDETTA PERILLI
ROMA – Ho disattivato il mio account Facebook da oltre un mese. Lo avevo aperto nel 2008 e dopo aver festeggiato sette compleanni insieme agli “auguriiii :-)” dei miei oltre 900 amici, visto nascere i loro figli, morire i loro gatti, crescere i loro amori, condiviso gioie e dolori di persone incontrate una sola volta nella vita, alla fine ho scelto di smettere di guardare le foto delle loro vacanze e dei loro panini.

L’ho fatto perché di Facebook ero diventata dipendente. Non solo non ero riuscita a dosare la mia presenza social, ma soprattutto non avevo dominato la compulsione di guardare perennemente lo schermo del telefonino muovendo in alto l’indice. Dalla mattina – ancora nel letto – alla colazione, passando per il bagno (si salva la doccia perché lo smartphone non è impermeabile). Poi in macchina – al semaforo nessuno suona più quando scatta il rosso, come te stanno tutti chattando su Facebook – al lavoro, dopo il lavoro, durante l’aperitivo mentre l’amico parla e tu lo ascolti ma non lo guardi perché gli occhi sono incollati sulla pagina biancoblu, a cena, dopocena, al cinema, al concerto, a letto. Addormentarsi su Facebook. Come se fosse normale.

Non riguarda tanto sapere cosa stanno facendo gli altri o cosa sta succedendo nel mondo, quanto riempire i tempi morti della giornata – e non solo quelli – con un’azione artificiale. In attesa dal parrucchiere, in coda al supermercato, a una cena, in spiaggia: tirare fuori lo smartphone, piazzarsi sull’homepage del social preferito e restare lì mentre intorno la vita reale si muove. Come i bambini davanti ai cartoni animati e i padri che guardano il Tour de France nei pomeriggi d’estate, tu gli parli ma non rispondono, sono assorti, quasi assuefatti. A me con Facebook capitava la stessa cosa.

Ne ho parlato con gli amici e ho capito che non ero la sola ad avere il problema. Per noi, gente con più di trenta anni, senza figli, spesso senza lavoro, con molta arte, abbondante vita sociale e tanto tempo a disposizione, “scrollare” è diventato una dipendenza. E con scrollare intendo quel movimento del dito indice che accarezza verso l’alto lo schermo di un cellulare di ultima generazione per visualizzare a cascata gli aggiornamenti dei principali social network. Basta fare il test del treno e si capisce che la cerchia di addicted non include solo me e i miei amici. Salite su un vagone – ma va bene anche l’autobus – sedetevi e guardatevi intorno. Il colpo d’occhio sarà questo: decine di teste chine sullo schermo, il volto illuminato, l’indice in azione. E dire che fino a qualche anno fa quelle teste avrebbero guardato oltre il finestrino o le righe di un libro o gli occhi di uno sconosciuto.

Io il 4 agosto ho deciso che non volevo essere più una testa china quindi ho disattivato il mio account. Facebook mi ha chiesto perché e io ho risposto perché passavo troppo tempo online; lui mi ha suggerito che avrei potuto ridurre le notifiche, io gli ho detto che non mi interessava più; lui ha giocato la carta del senso di colpa mostrandomi le foto dei miei migliori amici e dicendomi che a loro sarei mancata, non ho vacillato e così io e Facebook ci siamo lasciati. Come per ogni dipendenza che si rispetti – penso al fumo – ero in attesa del momento in cui avrei sentito il desiderio di scrollare di nuovo, di visualizzare il quadratino rosso della notifica, di sapere se Franca aveva trovato il vestito per il matrimonio di Carla, di conoscere gli ultimi spostamenti di Gianni Morandi. E invece no, invece mai.

Da più di un mese non sono più su Facebook e non ne ho mai sentito la mancanza. Quando mi sveglio accendo la radio, faccio colazione e guardo fuori dalla finestra magari leggendo le mail e i messaggi che ora gli amici mi scrivono più numerosi, in bagno leggo una rivista, in macchina guido e durante l’aperitivo riscopro quanto sono belli gli occhi verdi del mio amico. A cena, seduta davanti a Maria e Silvia le trovo entrambe intente a scrollare mentre parlo. Glielo faccio notare, si scusano – sono sincere – e spero che presto possano tornare a guardarmi anche loro. Al cinema vedo tutto il film senza frugare mai nella pochette e poi la sera mi addormento leggendo un libro. Che belle le sere senza Facebook.

Da più di un mese mi diverte riscoprire il piacere di telefonare o andare a trovare gli amici ogni volta che avrei dovuto scrivergli un messaggio privato e mi emoziona ascoltare i racconti delle loro vacanze, immaginare spiagge e canoe, vagoni e zuppe di grilli, senza averli già visti fotografati sulle loro bacheche. C’è il timore di perdere il contatto con il virale e le nuove mode, di mancare l’inaugurazione del nuovo bar in centro, di dimenticare il compleanno di Giulio, di venire a conoscenza con 48 ore di ritardo della morte dell’ultimo famoso. L’ho vissuto, è successo, ma la soddisfazione di essere fuori da una dipendenza che mi stava rendendo una versione peggiore di me stessa è più forte dell’emozione per l’invito al party più ambito della stagione.

Eppure qualcosa sento di averlo perso e non parlo solo della possibilità di andare su Tinder che, senza un profilo Facebook, lascia gli utenti orfani dei loro rimorchi virtuali. Si tratta dell’effetto megafono, di quel passaparola veloce e intrusivo che solo un annuncio su Facebook può garantire. Così per trovare un monolocale per un amico ora mi tocca uscire di casa e parlare con i vicini, chiedere informazioni all’anziana più potente del quartiere e con l’occasione finalmente conoscerla. Forse l’esito della ricerca non sarà così rapido e certo come quello di un post, ma nel percorso verso la mia informazione avrò stretto la mano a tre persone nuove.

Nel 2013 per Mark Zuckerberg quella di conoscere almeno una persona nuova al giorno fuori da Facebook fu la sfida dell’anno, per me è diventata una piacevole sorpresa da quando su Facebook non ci sono più.

“Quello da social è un abuso pericoloso, non una dipendenza”

Condividi  

L’ossessione da like che ci rende vulnerabili
di MARIA NOVELLA DE LUCA
ROMA – Potremmo definirla “depressione da like”. Anzi, meglio, da mancanza di like, e di post, poke, notifiche, messaggi, richiami, tweet e re-tweet. Tutti quegli “avvisi” che anche nella giornata più grigia ci danno la sensazione di esistere, di essere in comunicazione oltre il nostro spazio fisico, di avere, perché no, una montagna di amici. Al contrario, quando Facebook tace, e Twitter non cinguetta, e Instagram non commenta le nostre foto, il mondo pare oscurarsi. Senso di solitudine, rabbia, esclusione, pianto: così insospettabili adulti, donne e uomini di tutte le età, hanno descritto i loro stati d’animo nel rapporto con Facebook in particolare, in quei momenti in cui è impossibile connettersi, o quando, come accade, ciò che scriviamo e “postiamo” non riceve l’attenzione dovuta. Adulti che si definiscono perfettamente integrati, impongono ai propri figli il coprifuoco su tablet e pc, e poi con l’appendice fisica del loro smartphone replicano invece la modalità “sempre connessi” propria degli adolescenti. Con la differenza, però, spiega Paolo Ferri, docente di Teoria e tecnica dei nuovi media all’università Bicocca, che i più giovani ormai hanno capito l’inganno, “sanno che molti di quei contatti sono pura illusione, e preferiscono il gruppo WhatsApp dei loro coetanei in carne ed ossa”.

Il risultato è che lentamente il legame con i social diventa indispensabile, a casa, in ufficio, in auto, le chat sono sempre attive, una sorta di distrazione continua, un esercito di persone che vive, aggiunge Ferri, nella condizione di essere “alone together”, soli insieme. Una dipendenza, dunque, da quella condizione di sé narrata sui social, e che spesso non corrisponde affatto alla realtà di esistenze assai meno “splendenti” delle foto postate. Gli esperti però sono cauti. Se infatti per i giovani la famosa “sindrome da internet” che sconfina nell’auto reclusione degli Hikikomori giapponesi è una patologia ormai codificata, per gli adulti  la “malattia” sfugge ancora sia alla consapevolezza che alle statistiche. “Potremmo indicare un 5% della popolazione sopra i vent’anni che ha un rapporto insano e pericoloso con i social – aggiunge Ferri – e mostra alcuni aspetti della dipendenza. Il controllare ossessivamente i messaggi, accumulare amici pur di fare numero, contare i like come specchio del proprio narcisismo, sentirsi esclusi quando la rete tace. Ma forse più che parlare di dipendenza, questa connessione continua  è lo specchio di una nevrosi. Ossia ‘l’ostensione di sé che luoghi come Facebook permettono, il gioco autoreferenziale di mettere in piazza la propria vita, spesso senza pudore. E sentire così di essere nel mondo”.

E’ vero però che alcuni segnali possono dirci se abusiamo della rete: la quantità di ore passate su Facebook e simili, il tempo rubato alla vita reale, il controllo delle vite degli altri, l’invidia che gli utenti ossessivi dei social provano, ad esempio, per gli scatti felici delle esistenze altrui. Ed è proprio dai meccanismi di “controllo ossessivo”  che secondo Davide Algeri, psicologo esperto di “terapia strategia breve” si può capire se ci sono i sintomi della dipendenza.

Spiega Algeri: “Fino ad ora le situazioni più a rischio le ho viste dopo le separazioni, quando un matrimonio o un fidanzamento si rompe. Accade spesso che uno dei due ex (quasi sempre chi è stato lasciato) inizi a spiare in modo compulsivo la vita dell’altro, cercando di capire se è felice, se ha nuove amicizie, nuovi amori, nuove passioni. Facebook in queste situazioni non fa altro che esaltare un voyuerismo malsano, che certo non aiuta a creare altri legami”. Potendola spiare, insomma, è come se si restasse legati alla relazione precedente. Pur con cautela, Algeri ritiene che il rapporto compulsivo degli adulti con i social si potrebbe definire una “dipendenza senza sostanza”. I segnali? “L’angoscia da mancanza di like, la delusione se scopriamo che il nostro messaggio è stato letto ma nessuno risponde, il panico se manca la connessione, la frustrazione di cliccare mille volte e non trovare niente di nuovo, ma anche il gesto automatico di controllare Facebook come primo gesto del mattino e come ultimo gesto prima di andare a dormire”. “Per fortuna – spiega lo pisocologo – gli adulti non si isolano o auto-recludono come accade nei casi più gravi per gli adolescenti. Però esaltano lati di sé altrettanto pericolosi, come l’esibizionismo, o il bisogno di un apprezzamento sociale sulla rete, che poi si rivela del tutto fittizio”.

E allora la prima strategia per uscire dalla dipendenza, è riconoscerla. Ed è difficile, visto che la patologia si cela dietro comportamenti assolutamente normali,  o quantomeno non deviati. “Il primo campanello d’allarme è il numero di ore che di giorno e di notte si passano sui social. Ossia la connessione continua. In questi casi bisogna spezzare il cerchio, e decidere di dedicare alla rete soltanto alcuni appuntamenti precisi: un’ora la sera, un’ora nella pausa pranzo, ad esempio. Basta. Quando poi la sofferenza si fa più acuta, e ci si accorge di non riuscire a vivere senza quello specchio, allora è il caso di chiedere aiuto”.  E quasi sempre la disintossicazione passa attraverso una riappropriazione della vita reale. Una passeggiata con un amico ad esempio, piuttosto che cinquemila contatti e qualche centinaio di “mi piace” su Facebook.

Utili, pettegoli o raffinati: a ognuno il suo
di ERNESTO ASSANTE
ROMA – Forse non dovremmo nemmeno chiamarli più “social network”, oggi le reti sociali tramite Internet sono qualcosa di più e soprattutto di diverso. Certo, un nome migliore a tutt’oggi non c’è, ma è chiaro che nell’insieme dei social media entrano cose molto diverse tra loro e che nel corso degli anni sono molto cambiate. Che parentela c’è, ad esempio, tra un “social network” degli esordi come My Space e Snapchat? Poco o nulla, perché ogni singolo media ha la sua struttura, i suoi meccanismi, i suoi statuti, le sue necessità e le sue regole. Regole che vengono stabilite dai gestori e poi, rapidamente, accettate o modificate dai fruitori. Che decidono quale social network ha un senso e vale la pena usare e quale no, a seconda del “momento storico” in cui ci si trova. E il “momento storico odierno” ci mostra che alcuni social network sono diventati i media di riferimento per una gran parte della popolazione adolescente del pianeta che li usa per comunicare, per informarsi, per intrattenimento e per approfondimento, per divertirsi e spettegolare così come per collaborare e condividere esperienze e emozioni.

No, non sottovalutateli questi strumenti di comunicazione che, a ben guardare, solo solo all’alba della loro storia. Sono spesso stupefacenti, coinvolgono i giovanissimi in prima persona, hanno delle potenzialità immense, attualmente usate solo ai minimi, e in alcuni casi, come quello evidentissimo di Facebook, sono arrivati addirittura a sostituire il web come paradigma.

Partiamo da Facebook, appunto: è un Internet parallelo, che offre più o meno di tutto, notizie, intrattenimento, giochi, giornali, app, tv e molto altro ancora. Funziona perché ha risolto con estrema semplicità il problema delle “pagine personali”. Nessuno ha bisogno di aprire un sito web per essere presente online, basta creare una pagina Facebook. E questo ha fatto sì che oggi il social network più frequentato del mondo sia ai vertici dell’uso per quello che riguarda testi, foto e video. E l’utilizzo è sempre più appannaggio degli adulti, che hanno con Facebook tutto quello che a loro serve, mail compresa, e in più la rete sociale dei loro amici e conoscenti. Così come le aziende hanno un canale diretto per collegarsi con i propri clienti, e via discorrendo.

I ragazzi, che sono stati il motore iniziale, ci sono ancora ovviamente, ma non è Facebook il loro strumento di riferimento. Anche perché la creatura di Zuckeberg ha avuto inizialmente qualche difficoltà a trasformarsi da sito internet in software per smartphone e poi in un app davvero comoda. Alcuni dei pretendenti al trono che negli anni si sono affacciati sulla scena hanno saputo fare di meglio e prima, conquistando ampie fette di mercato che non sono, comunque, state tolte a Facebook. Perché i nuovi social network sono andati via via sommandosi ai precedenti, entrando tutti a far parte, per un motivo o un altro, della dieta media dei ragazzi di tutto il mondo.

Si, perché l’evoluzione più grandi le reti sociali l’hanno avuta e la stanno avendo con l’avvento degli smartphone di ultima generazione, ovvero di computer che ci consentono di essere collegati con altri costantemente, anche mentre siamo in mobilità. Computer tascabili o portatili che hanno in se una funzione di comunicazione sociale e personale, quella telefonica, che viene espansa oltre ogni limite nella sua interazione con la rete, della fotocamera e della videocamera, con l’uso del registratore vocale o della possibilità di disegnare o di scrivere sullo schermo. Twitter, ad esempio, è stato il primo social network a sfruttare in pieno le possibilità offerte dagli smartphone, imponendo l’uso di messaggi estremamente brevi, i tweet, cinguettii appunto. La brevità è diventata una forma espressiva a se stante, altrettanto ricca e potente se se ne comprende a fondo l’uso e il senso. E in grado, se si vuole, di rimandare costantemente ad altro, attraverso link.

Ma a molti l’idea di scrivere testi brevi è sembrata subito vecchia quando è arrivato Instagram, che ha spostato l’accento sulle immagini, sulle foto scattate con lo smartphone e immediatamente condivise con i propri amici. La capacità espressiva di un’immagine è risultata immediatamente chiara ad una generazione cresciuta con la televisione e disposta a mettersi in primo piano con un selfie. Instagram se da un lato ha semplificato la visione delle diapositive delle vacanze rendendole immediate, ha altresì spinto la verità delle immagini in prima visione, è diventata testimonianza del reale al di là dell’invisibilità della persona nascosta dietro al testo scritto. E rapidamente è diventato un social network di estremo successo tra i giovani e i giovanissimi. Lo è ancora? Certamente, ma altri network pian piano hanno cercato di far breccia nei cuoi dei più giovani, via via che i network precedenti diventavano mainstream, accessibili e usati dagli adulti, non più trendy ed esclusivi.

Il “limite” di Instagram era quello di consentire in origine la condivisione di fotografie e brevissimi testi. Ma gli smartphone hanno anche delle videocamere che vengono ampiamente usate dai ragazzi in ogni possibile occasione. Vine è stato il prototipo di questo nuovo uso dei social e degli smartphone, video di sei secondi, ultrabrevi, che consentivano la condivisione di momenti in movimento, audio e video insieme. E una nuova frontiera si è immediatamente aperta, al punto che oggi alcuni “viners” internazionali sono addirittura diventati delle star usando questo formato di video “lampo”. Ma se Vine ha fatto breccia tra i creativi e non tra i giovanissimi, è stato Snapchat a decretare il successo della brevità assoluta, della concentrazione dell’informazione. Non tanto perché i messaggi siano in sé brevi (i video ad esempio possono durare fino a dieci secondi), quanto per la loro esistenza on line: messaggi, foto, audio, video, si cancellano automaticamente dopo la visualizzazione.

“Senza si vive meglio, ma Facebook è come una droga”

Condividi  
Snapchat impazza tra i giovanissimi, perché crea reti che non esistono se non nell’istante in cui vengono vissute, non consentono memoria e archiviazione, sono un eterno presente, senza passato, senza futuro. Inutile dire che i picchi di maggiore utilizzo sono raggiunti durante l’orario scolastico, quando i ragazzi usano Snapchat al posto dei vecchi e analogici fogliettini di carta, o degli sms, che possono circolare per scambiare le soluzioni dei compiti o prendere in giro gli insegnanti, autodistruggendosi senza lasciare prove compromettenti in giro. Snapchat ha anche, come dice il nome stesso, funzioni di chat, genere che non è mai andato fuori moda.

Chi invece ama la memoria, chi vuole che ogni emozione, viaggio, festa, evento, momento, diventi una storia usa Storehouse, un social network completo e particolarmente raffinato, tutt’altro che mainstream e non necessariamente giovanile, che permette di condividere storie composte da testo, foto, video, con un interfaccia estremamente elegante, amato dagli adulti; o Pinterest, che punta tutto sulla definizione attraverso le immagini delle proprie passioni o soprattutto del proprio stile.

Ma non è tutto necessariamente bello o interessante, divertente o utile. Ci sono anche social network da evitare come la peste, primo fra tutti Ask, con tutto il suo carico di violenza anonima, o quelli da frequentare se si è in cerca di un lavoro o si vuole migliorare la propria posizione, come Linkedin, costruito sulla presentazione di curriculum ma anche sull’interazione tra utenti e la condivisione di notizie e informazioni utili, di “raccomandazioni” personali.

Ecco quindi che, nell’uso che soprattutto i giovani fanno degli smartphone, delle possibilità multimediali che offrono, le reti sociali si sono via via trasformate in reti personali, che nascono e vivono nel lampo di un giorno o di poche ore o addirittura di qualche minuto, reti istantanee che non hanno alcuna necessità di esistenza nel tempo, bastano a far condividere una foto, un pensiero, un disegno, altro, per poi svanire, bastano a far prendere un appuntamento per una pizza o per andare al cinema e poi si chiudono.

Reti personali che servono a definire il proprio “sé” non più virtuale ma reale, attraverso Instagram o Spotify (che ha funzioni di condivisione di musica e playlist) o Youtube (che consente di creare canali che possono essere condivisi, così come i singoli video), mettendo in comune passioni, musiche, sentimenti, emozioni. I social network sono talmente network personali che oggi vengono usati anche e soprattutto per mandare messaggi audio, non testi o foto, per parlarsi (gratuitamente ovviamente, perché ognuno di questi strumenti ha successo proprio perché permette di non scaricare il credito telefonico soprattutto se usato in wi fi da casa) con la propria voce, con le inflessioni giuste, per evitare fraintendimenti e inutili incomprensioni.

No, non pensiate che per i ragazzi questi strumenti siano una semplice idiozia. Sono strumenti vuoti per chi non vuole vedere quanto “pieno” c’è in essi, quanta realtà circola tra i messaggi, quanta vita e anche informazione viene ogni giorno condivisa. Siamo solo all’inizio di una nuova era, anzi, siamo nel pieno “medioevo”, tra la vecchia società analogica che conoscevamo a menadito e la nuova società digitale che sta nascendo ma che non ha ancora preso la sua forma vera e propria. Fate attenzione agli smartphone che avete in tasca e a come li usano i ragazzi, che vedono in queste macchine, nei social network che le animano, strumenti di comunicazione del tutto diversi da quelli che vediamo noi. Che magari ci ostiniamo a chiamarli telefonini….

Ma prima o poiZuckerberg ci dovrà pagare
di RICCARDO STAGLIANÒ
ROMA – Il germe della disuguaglianza è iscritto nell’atto di nascita del web 2.0. Il termine diventa popolare nel 2004 e definisce i social network che prosperano grazie al contenuto generato dagli utenti. Dal punto di vista del nuovo capitalismo digitale sembra una specie di quadratura del cerchio. Gli utenti – voi, io, tutti – lavorano creando informazioni che Google renderà cercabili, postando status su Facebook, opinioni sull’universo mondo su Twitter, foto su Instagram e così via. Nel frattempo, per aver fornito le piattaforme, Brin&Page, Zuckerberg e gli altri guadagnano. È andata così negli ultimi dieci anni. Ma è giusto e addirittura inevitabile? Non si potrebbe trovare un modo per condividere (verbo che dovrebbe risultare particolarmente caro ai siti sociali) il denaro generato da quelle attività? L’interrogativo, che prima circolava in cripto-circoli marxisti, è stato sdoganato e divenuto mainstream.

Uno dei principali responsabili di questo affrancamento è Jaron Lanier, tra i padri della realtà virtuale e autore di ‘La dignità digitale al tempo di Internet’ (il Saggiatore). Quella che lui denuncia è la “frode contabile di massa” che fa finta che i social network, o i big data di cui tanto si parla, si producano per partenogenesi informatica. “E invece ogni tessera di quel caos di informazioni che Google organizza è prodotta da esseri umani. Sempre. La domanda piuttosto è: quel contributo è messo a bilancio e dunque valorizzato adeguatamente? La risposta è no. E nel frattempo Google diventa sempre più ricco e noi che lo alimentiamo sempre più poveri. Fermiamoci! Pretendiamo che un po’ di quel valore ci sia riconosciuto”. Principio sacrosanto, ma dall’applicazione complessa.

Ci sono esempi celebri. Uno riguarda Instagram. Il sito in cui si possono postare le proprie foto, con un bel po’ di effetti speciali, è stato comprato nel 2012 da Facebook per la modica cifra di 1 miliardo di dollari. Gli analisti hanno commentato che è circa il doppio del suo valore. Il fondatore intascherà 400 milioni. I tredici dipendenti se ne spartiranno circa 100. Il resto andrà ad altri investitori e a far funzionare il tutto. Instagram, azzardando una similitudine semplificatrice con il mondo analogico, è l’album. Le istantanee che ospita le scattiamo noi. L’inversione dei rapporti di forza digitali fa sì però che chi ha realizzato l’album prenda tutto, mentre chi ha scelto l’inquadratura niente. Lo stesso vale per gli altri social network. Di nuovo: noi lavoriamo, loro guadagnano. È giusto?

Quando Facebook fu valutata intorno ai 100 miliardi di dollari alla vigilia della quotazione in Borsa chiesi a Kevin Kelly, uno dei fondatori di Wired e guru della cultura digitale, se noi che la alimentiamo a ogni ora del giorno e della notte non avessimo diritto neppure a qualche briciola dell’immensa torta. Rispose: “Non abbiamo diritto, ma potremmo accamparlo. E non è da escludere che un giorno i social media dividano i profitti con gli utenti. Ci sarà una tensione costante su come allocare quel denaro. Ma il punto chiave è un altro: non credo che Facebook abbia alcun profitto da dividere. La valutazione non rispecchia i profitti, è immaginaria”.

Posi la stessa domanda anche a Clay Shirky, professore di nuovi media alla New York University e autore di ‘Uno per uno, tuti per tutti’ (Codice) in cui celebra la grandezza dei blogger e altri dilettanti che auspicava avrebbero preso il posto dei professionisti, senza spiegare altrettanto bene come si sarebbero mantenuti. Non era d’accordo con la mia preoccupazione: “Meriterebbero una quota di quella ricchezza solo a patto di ritenere che anche i proprietari dei bar dovrebbero pagarci per i contenuti che condividiamo al loro interno dal momento che è la nostra presenza a renderli luoghi conviviali al punto da farci pagare il caffè più di quanto ci costerebbe a casa. La maggior parte dei contenuti messi a disposizione del pubblico però non sono creati per denaro, ma per amore. Anche amore di se stessi, ma pur sempre… E Facebook fornisce una piattaforma dove è possibile crearli e condividerli: è questa la sua ricompensa”. Il paragone non mi aveva convinto. Gli avventori di un bar non si spingono a fornire i caffè o i pasticcini che poi attirano gli altri clienti. Senza i suoi 30 milioni di utenti Instagram sarebbe un album vuoto. E nessuno avrebbe la benché minima motivazione a sfogliarlo.

Resta difficile calcolare a quanto ammonta il contributo individuale. Qualche tempo fa ci ha provato Felix Stadler, professore di cultura digitale all’università di Zurigo. Ha preso gli utenti Facebook dell’estate 2014 (1,32 miliardi di persone) e i profitti (791 milioni). Quindi ha diviso questi ultimi per il numero di utenti, scoprendo che ognuno fruttava, di pubblicità, 0,60 dollari. Se anche Zuckerberg decidesse di fare a metà con il singolo utente, nelle sue tasche finirebbero 0,30 dollari. All’anno. Siamo lontani anni luce dalla possibilità di cavarne uno stipendio. E allora?

L’ipotesi di Lanier era la seguente: “Si dovrebbe modificare l’architettura del web, recuperando l’idea originaria di Ted Nelson. Nei primi anni 60 l’inventore dell’ipertesto immaginò una rete con link bi-direzionali, in cui chi ci cliccava poteva sempre risalire al punto di partenza”. Chiunque riutilizzasse qualcosa prodotto da voi così dovrebbe citarvi. Riconoscendovi una parte dei suoi guadagni. In teoria non fa una piega, in pratica non sarà affattofacile. In più c’è quella miseria del valore pubblicitario che Facebook ci attribuisce (60 centesimi) che smonta tutto. Lo stesso Lanier conosce benissimo i limiti di applicabilità della sua idea: “Stiamo ragionando su astrazioni. Credo che fondamentale sia rompere l’incantesimo in cui siamo stati intrappolati sino a oggi. Fatto quel passo, la soluzione si troverà”. Riconoscere che abbiamo un problema è già un buon inizio.

fonte:
https://inchieste.repubblica.it

POST A COMMENT