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Meno imprese e poco lavoro. Ma l’export fa sperare Torino

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I dati socioeconomici fotografano la crisi: “Parametri da città del Sud”

L’ultimo tassello l’ha inserito l’agenzia di rating Fitch (con il Comune in estate ha disdetto il contratto) rivedendo al ribasso le prospettive di Torino: rating confermato (BBB) ma l’outlook passa da stabile a negativo. Colpa delle incertezze che avvolgono la situazione dei conti, soprattutto rispetto «al contenimento della spese, al perdurare della stagnazione e alle scarse performance nella riscossione di tasse e tariffe».
Torino si avvita, si interroga sulla sua condizione di città in salute o a rischio declino. Ad analizzare i dati, gli studi indipendenti – ad esempio il Rapporto Rota, diffuso ieri – sembra una città sospesa. Su un versante gode ancora dell’onda lunga delle trasformazioni e degli investimenti degli ultimi vent’anni. Lo dimostra la forza del suo sistema universitario, forse il migliore in Italia, il suo indubbio ruolo di capitale dell’innovazione: tra il 2005 e il 2014 in Piemonte, mentre il Pil aumentava del 4,6%, la spesa in ricerca e sviluppo è cresciuta di oltre il 35%; oggi un quinto dell’investimento nazionale in sapere è concentrato qui. Peccato che su 250 brevetti registrati in città nel 2016, 150 siano poi stati sviluppati altrove.
Anche il turismo continua a vivere una parabola ascendente: in provincia di Torino nel 2016 si sono registrati 2,3 milioni di arrivi (+2,6% sull’anno precedente) e 6,8 milioni di presenze (+2,1%) e a settembre di quest’anno il tasso di occupazione delle camere d’albergo era del 77% contro il 70% dello stesso mese del 2016.
Il secondo versante, però, racconta che queste nuove vocazioni fanno di Torino una incompiuta. Non riescono a compensare – in occupazione né in ricchezza – quel che si è perso con la crisi della manifattura. È vero che il peggio sembra alle spalle: secondo l’ultima trimestrale dell’Unione industriale gli indicatori su produzione e ordini sono positivi, gli investimenti in crescita e l’utilizzo degli impianti vicino al massimo storico del 1988. L’export è in salute, Torino è seconda solo a Milano ma la distanza si sta riducendo: nel 2008 le esportazioni torinesi erano il 43% di quelle milanesi, nel 2016 erano il 55%. Eppure il tessuto continua a perdere colpi: le imprese registrate al 31 dicembre 2016 erano 223.307, mai così poche dal 2003. Delle quattordici aree metropolitane italiane solo Messina ha vissuto una morìa di proporzioni analoghe. E, a dimostrazione della transizione incompiuta, gli unici comparti in salute sono turismo e servizi alle persone. Emerge una debolezza strutturale: solo il 18% delle aziende è una società di capitale, ed è il dato più basso tra le grandi città italiane, con la sola eccezione di Reggio Calabria. «Se non pensiamo a un piano strategico per l’industria innovativa, capace di coinvolgere anche la piccola impresa, non imboccheremo la strada della crescita», ragiona Giorgio Marsiaj, imprenditore che guida l’associazione delle industrie metalmeccaniche. «La filiera torinese è competitiva ma va innovata, deve fare sistema, ma può farcela solo se la città in tutte le sue articolazioni partecipa al processo».
 
Invece Torino sembra vivere una fase statica, disgregata: la faglia tra politica, società civile e mondo produttivo si è allargata, l’elaborazione culturale e progettuale è ferma da anni. L’unico progetto degli ultimi anni risale alla giunta Fassino: la scommessa di investire sulla vocazione universitaria costruendo campus, laboratori, studentati su aree da riqualificare. Il piano, abbozzato, oggi arranca. E nella disgregazione sono riemerse antiche e nuove debolezze.
Una città del Nord, con eccellenze uniche e forse irripetibili, ma con una struttura socio-economica e dinamiche che somigliano spesso a quelle del Sud: ecco come appare Torino. Solo nei capoluoghi di regione meridionali si rintracciano livelli di disoccupazione più alti (12,3% per gli uomini e 12,8% per le donne). E da nessuna parte si riproduce il paradosso anagrafico: è tra le più vecchie (e invecchiate) città europee, eppure fatica a dare lavoro ai giovani. Il 40,8% dei ragazzi con meno di 25 anni non lavora, percentuale che colloca Torino appena sopra Napoli, Palermo, Catania e Messina.
 

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