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La leggenda del compagno Fico

È il gran ciambellano di una illusione ottica (l’M5S di sinistra), si barcamena tra le zampe del governo gialloverde parlando quasi solo di acqua pubblica. Sarebbe perfetto a incarnare un grande classico: il leader dei ribelli. A sinistra qualcuno ci crede pure, invano

Avesse cominciato nell’ultimo anno a far politica, sarebbe magari finito a fare il militante di Potere al popolo: e quindi, fra l’altro, starebbe fuori dal Parlamento, inchiodato all’un per cento – altro che presidenza della Camera. Dovesse mai uscire dai Cinque stelle, potrebbe – vista la sua insistenza un filo ossessiva sul punto – tenere a battesimo qualcosa come il Partito dell’Acqua Pubblica e auguri. Insomma Roberto Fico, ex ufficio stampa per alberghi e operatore di call center, oggi terza carica dello Stato e gran ciambellano di una illusione ottica (la sinistra di M5S e i suoi annessi) è tutta una questione di distanza.

Collocato al punto giusto dell’orizzonte, con la luce morbida, né troppo lontano né troppo vicino, tra l’occhione liquido, il capello spettinato, la collanina di cuoio e perline e le sincere e accorate parole di spregio verso il mondo cattivo di Salvini e di Orbán, appare perfetto a incarnare il ruolo cui lo chiamano la tradizione, il copione della Casaleggio Associati, il sistema mediatico e qualche speranza della sinistra: il possibile leader dei ribelli, la riserva delle origini pronta a sfidare la degenerazione grillina, l’agitatore di fronde, l’incarnatore della differenza interna all’altrimenti monolitico gialloverde al governo.

Peccato che poi, appena ci si faccia più da presso, vada tutto in frantumi.

«Sono il presidente di tutti gli italiani», ha detto con la voce incerta davanti ai microfoni l’altro giorno, facendo sbarrare gli occhi in un sol colpo (miracolo!) all’intera serie dei ritratti degli inquilini di Montecitorio – da Urbano Rattazzi a Gianfranco Fini – appesi nella cosiddetta Galleria dei Presidenti dal lato opposto del Transatlantico. Come di tutti gli italiani? Non bastavano i deputati? «Chiedo scusa a nome dello Stato», ha ripetuto nei giorni successivi, a proposito del crollo del ponte Morandi a Genova, mostrando di avere certo un radicato senso della gravità, quanto parimenti un’idea poco domestica di quali istituzioni rappresentino esattamente che cosa. A dirla spiccia: è vero che già tre napoletani, prima di lui, dopo la presidenza della Camera sono ascesi al Quirinale, ma di qui a parlare come un capo dello Stato pare prematuro, per lo meno per uno che sin qui il suo maggior gesto di rottura ed eco mediatica l’ha fatto salendo su un autobus a Roma (l’85).

Ecco, una questione di distanza. «Visto da vicino è molto modesto, molto leggero come personalità, gli manca persino il vocabolario, pensavo meglio», sibila tra il deluso e l’imbarazzato un suo predecessore, che di queste cose se ne intende. Toccata con mano, in effetti, la faccenda dell’eventuale “compagno Fico” è più spinosa e complessa di quanto non riesca a dire il conteggio dei plausi e delle aspettative – che pure ogni volta si fa, anche con una qualche vezzo di maniera, per non perdere l’esercizio dopo decenni trascorsi tra Casini e Fini, Bertinotti e Boldrini. Una somma di debolezze, più che un incubatore di futuro. Persino nell’ospitata del presidente della Camera alla festa dell’Unità di Ravenna, il 3 settembre, il fin qui inedito ingresso di un grillino nella tana democratica (ma Fico è uno che le feste dell’Unità le ha pure frequentate) è stato tenace ma affaticato, appassionato ma opaco.

Se i dirigenti Pd, o almeno una loro parte, han fatto capire di aver chiuso la saracinesca del dialogo con l’antagonista a Cinque stelle (il capogruppo Pd Graziano Delrio, nel bel mezzo del dibattito, lo stava per chiamare «anima bella», s’è fermato ad «anima» e con questo s’è detto tutto), più interessante è stata la reazione della platea, della sinistra di popolo che s’è seduta ad ascoltarlo. Incuriositi e insieme disillusi, con l’acquolina in bocca per il ragazzo di sinistra ma anche con la bava alla bocca per il rappresentante della maggioranza che tiene su Conte e Salvini. Indecisi tra l’applauso e il fischio, pronti in fondo ad entrambi, nella confusione della folla (c’erano pure fan grillini) e della fase in genere. Costernati però anche dalla capacità di Fico di rimanere a metà del guado: contro la Lega, contro la politica sui migranti eppure acquattato tra le zampe del mostro, forse aspettando che si stanchi (del resto a Grillo e Casaleggio deve tutto: bisogna capirlo). Estenuati, infine, dallo sciorinare un curriculum politico che può apparire ricco per la media dei grillini di Palazzo, ma resta poca cosa per un militante Pd che nel 2018 abbia la voglia di passare un pomeriggio alla festa dell’Unità. «E basta con questa storia dell’acqua pubblica, lo sappiamo, abbiamo capito», è stato il grido dal cuore – più persone, diverse file, le stesse parole – alla tredicesima volta che Fico riattaccava il disco del proprio personale mito fondativo, peraltro risalente nel tempo (tutto cominciò nel 2005, tredici anni fa, ma anche dal referendum del 2011 è passato ormai abbastanza).

Eppure non c’è scampo perché, scava scava, non c’è molto altro. La chiave è quella: il mito post-ideologico della difesa del bene comune (l’acqua, appunto) è ciò che ha portato il ragazzo della Napoli bene – figlio di un dipendente del Banco di Napoli, suonatore di tastiera e giocatore di pallavolo, all’epoca tra i pochi a scendere da Posillipo al Liceo Umberto I con l’autobus (il 140) – lontano dal disimpegno, lontano dai neomelodici cui ha dedicato la tesi di laurea in Scienze della comunicazione. È l’«acqua pubblica» ciò che ha condotto Fico fuori dalle delusioni della sinistra, da Bassolino (primo voto) a Rifondazione. E dentro, invece, al futuro: che lui ha agguantato persino prima di Luigi Di Maio.

In origine, si pensi un po’, Giggino era il fondatore di un Meetup minore (quello di Pomigliano nel 2007, contro quello fichiano di Napoli nel 2005) e correva a mettersi sotto l’ala di Roberto, maggiore di 12 anni e domestico agli sms con Grillo, ogni volta che poteva, tanto da meritarsi nel gruppo proto-M5S il soprannome di «ragazzo spazzola». Ma questo è tutto: ciò che poteva accadere è accaduto là. Dopo, Fico s’è arenato nella casella che faceva comodo, nel casting della Casaleggio (creatura di Gianroberto, a Milano era di casa fin dal 2005), l’unica in fondo disponibile per lui: il puro, di sinistra, movimentista, di piazza, antagonista, vicino ai movimenti di base. Più o meno solitario, sempre sul punto di fare la guerra, rassegnato a non farla mai. Coerente ma inerte. Disilluso di certo, sempre di più. E forse alla fine paradossalmente «il più pragmatico di tutti noi», come ebbero a dire Di Maio e Di Battista, sul treno di ritorno da Milano, nell’aprile 2016, dopo i funerali di Gianroberto Casaleggio.

A osservare per bene la questione, in effetti, appare adesso evidente come la “popolarità” di Fico dentro al M5S sia assai variabile ma proporzionale, di volta in volta, all’urgenza di rappresentare anche le istanze di sinistra del Movimento: come a dare un corrispettivo, una faccia, simpatica e timida, e persino una corrente (i fichiani, sempre i soliti, da Paola Nugnes a Luigi Gallo, toccando al massimo la solidarietà della ministra Barbara Lezzi) ai tanti malumori della base grillina. Si è ripetuto in forma massima nello scorcio di fine estate: tra il «Fico isolato» da Salvini e Di Maio, la «crescente fronda pro-Fico», che per il Corriere della Sera conta una decina di persone, e per il Tempo cento, addirittura. Qualche anno fa, d’altra parte, si favoleggiò fosse in grado di muovere, insieme con Laura Castelli, una settantina di parlamentari, per una scissione che naturalmente non si sarebbe fatta mai: mentre al contrario, adesso, sia lei sia lui sono saldamente dalla parte dei vincitori.

Volendo stilare una ideale lista per misurare se la terza carica dello Stato sia mai riuscita – e quante possibilità abbia oggi – di influenzare la linea del Movimento cui appartiene, si fa prestissimo. Favorevole all’introduzione dello Ius soli quando il suo partito decideva di astenersi, favorevole alle unioni civili quando il partito decideva di sfilarsi, contrario alle cariche con gli idranti contro i migranti a piazza Indipendenza a Roma quando il Movimento stava invece col prefetto, contrario alla difesa della sindaca di Roma Virginia Raggi della quale invece Di Maio si incaricò, favorevole alla linea sui migranti portata avanti da Gino Strada ed Erri De Luca, contrario invece a quella di Marco Minniti prima e di Salvini poi (Giggino ha appoggiato entrambe), avverso alle «interviste vippaiole» dell’allora vicepresidente della Camera, contrarissimo all’accordo con la Lega («Dio ce ne scampi», è il virgolettato ante litteram), Fico è in effetti in questo un perfetto esponente della sinistra. Nel senso che perdere, stare in minoranza, gli riesce benissimo.

La strategia dell’appeasement alla fine ha pagato: il «Ribelle Afono» come l’ha chiamato il Messaggero, il «Muto Dissenso» come l’ha chiamato il Foglio, ha incassato il massimo che la storia e il copione potevano concedergli, dopo aver ingoiato giusto un anno fa il cambio delle regole grilline che consegnava a Di Maio ogni potere nel partito, e dopo aver – autentico rivoluzionario – non partecipato alle finte primarie che avrebbero incoronato capo il deputato di Pomigliano d’Arco (istruttivo riguardare oggi i video di quei giorni a Rimini: quando Fico arriva alla festa M5S inseguito dalla casaleggina Enrica Sabatini, quando discute a volume zero con Di Maio, quando assiste alla lettura dei risultati solo con la compagna).

E adesso che ha in mano il massimo dividendo possibile, Fico non sembra per niente sul punto di buttar tutto via.

Naviga a vista, nel mare di «non lo so» coi quali risponde a chiunque gli chieda cosa pensi del futuro, prestandosi volentieri a fare lo scrigno degli ideali primigeni del Movimento, e cozzando palesemente con la realtà per quel che riguarda il presente. Cozzando, e fregandosene, in una specie di esilio con varianti: da «uno Stato del genere non mi rappresenta», a quelli della Lega «sono geneticamente diversi da me», o in alternativa «noi non siamo questa roba», fino all’ungherese Orbán, che è «quanto di più diverso da me». Insomma, sono tutti diversi, dice l’antagonista irrisolto.

A chi gli fa notare la contraddizione, totale, Fico continua a ripetere tignoso che «il contratto di governo non è una alleanza», e che oltre quelle pagine il Movimento non andrà. Eppure, l’uomo che tanto si batté nella Terra dei fuochi ha accettato anche lui di muoversi dentro un accordo che sulla questione prevede righe zero, e che al Sud ne dedica otto in totale. E tra gli interventi suoi più appassionati, ne ha dedicato uno alle carceri, con una lettera ad Avvenire in cui chiede umanità, pene alternative, reinserimento, come fingendo di non sapere che è la direzione opposta a quella scandita nel Contratto, tutto certezza della pena e carcere duro.

Ma il finale era già scritto: insediandosi da presidente, Fico ha detto di volersi battere per la centralità delle Camere; esattamente quattro mesi dopo, colui che tiene salde le chiavi del M5S (Davide Casaleggio) ha chiarito che tra «il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile», e che grazie alla Rete «il Parlamento tra qualche lustro non sarà più necessario». Il che rende Fico un personaggio vaporoso come la sostanza di cui sono fatti i sogni. Il cui contributo si rivela, a tratti, tragicamente desiderabile, nella crisi shakespeariana che avvolge la sinistra. Come un farsi compagnia tra solitudini, e pavidi opportunismi.

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