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Isola di plastica del Pacifico, pulirla non risolverà il problema

Un nuovo studio evidenzia come la cosiddetta Great Pacific Garbage Patch è composta in massima parte da attrezzi da pesca e rappresenta il sintomo di una malattia curabile solo cambiando modello di sviluppo

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Questo pulcino di albatross è stato trovato nell’atollo di Midway, nelle Hawaii, con lo stomaco pieno di oggetti di plastica. Fotografia di Dan Clark, USFWS/AP 
La cosiddetta Isola di plastica del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch, in inglese) è la più grande zona di accumulo di rifiuti galleggianti al mondo. È situata in corrispondenza del vortice oceanico subtropicale del Pacifico del Nord, in una regione dove le correnti superficiali formate dai venti creano una zona di convergenza dove si accumulano detriti naturali e di origine umana che possono rimanere intrappolati nel vortice  per vari anni. La maggior parte dei detriti sono frammenti di plastica di dimensioni microscopiche, ed escluse concentrazioni locali di rifiuti di grandi dimensioni, i detriti non sono visibili ad occhio nudo, tantomeno dallo spazio.
Nella cosiddetta “isola” non c’è un solo centimetro quadrato di superficie sul quale si possa camminare. Nonostante questo, due agenti pubblicitari statunitensi hanno dichiarato che quest’accumulo di plastica in mezzo all’oceano costituisce un luogo vero e proprio, lo hanno battezzato “Isole dei Rifiuti” e hanno proclamato il vice-presidente americano Al Gore come primo “cittadino” di questa nazione. Nel settembre 2017 hanno poi promosso una petizione alle Nazioni Unite per chiederne il riconoscimento internazionale. Questa trovata

pubblicitaria ha contribuito a mantenere il mito dell’isola.
Scoperto nel 1988 dai ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti, l’accumulo di plastica nel vortice del Pacifico Nord è portato all’attenzione dei media e del grande pubblico nel 1997 grazie alla testimonianza del navigatore statunitense Charles Moore, che durante una traversata verso Los Angeles si ritrova con la sua barca a vela circondato in un ammasso di contenitori di plastica e di altri rifiuti di produzione umana. È l’oceanografo Curtis Ebbesmeyer, che aveva ricostruito le dinamiche delle correnti del Pacifico seguendo i movimenti di oggetti galleggianti persi dai cargo come giocattoli di plastica a forma di paperelle e scarpe da tennis Nike, che conia il termine Garbage Patch.
Nel 2013 il giovane olandese Boyat Slat crea la fondazione Ocean Cleanup con l’obiettivo di ripulire l’isola di plastica. Utilizzando una serie di dispositivi composti di braccia galleggianti che sfruttano le correnti oceaniche, promette di rimuovere il 50% della plastica intrappolata nel vortice del Pacifico del Nord in 5 anni. La maggior parte della comunità scientifica ritiene che l’operazione sia una perdita di tempo, e la critica sotto vari punti di vista: il sistema di filtraggio associato alle braccia galleggianti può arrivare a trattenere solo particelle di dimensioni superiori a 1 mm, mentre la maggior parte dei frammenti di plastica intrappolati nel vortice hanno dimensioni più piccole; il sistema di filtraggio potrebbe danneggiare gli organismi marini planctonici che vivono alla superficie dell’acqua; la maggior parte dei rifiuti plastici si trova in corrispondenza delle coste e non in mezzo agli oceani; ogni anno dai 4 ai 13 milioni di tonnellate di plastica arrivano negli oceani a causa di una cattiva gestione dei rifiuti urbani, sarebbe più utile ridurre questa emorragia piuttosto che pulire.
Quanta plastica è intrappolata nel vortice del Pacifico del Nord?
Nonostante le criticità avanzate dalla comunità scientifica, la campagna di crowdfunding di Ocean Cleanup raccoglie 26 milioni di euro e la fondazione inizia a testare prototipi del dispositivo per la rimozione delle plastiche nel Mare del Nord. Nel 2015 Ocean Cleanup lancia inoltre una grande campagna di raccolta dati nella zona centrale del vortice del Pacifico Nord: durante due mesi 18 imbarcazioni effettuano 652 campionamenti alla superficie dell’oceano, campionando sia micro che macrorifiuti (5-50 cm), e nell’anno successivo vengono svolte due campagne aeree che tramite 7.000 immagini offrono una stima della quantità di mega rifiuti  (> 50 cm) su 311 km2.
I dati raccolti, pubblicati il 22 marzo scorso sulla rivista Scientific Reports, offrono la stima più robusta della massa di plastica accumulata nel vortice del Pacifico Nord, corrispondente a 79.000 tonnellate. Questo valore, calcolato con l’ausilio di modelli matematici di circolazione oceanica, è superiore di circa 16 volte rispetto ad una stima precedente (4.800 tonnellate) ottenuta da uno studio che aveva considerato solo le microplastiche, e 4 volte superiore rispetto ad uno studio (21.000 tonnellate) che aveva considerato micro e macroplastiche.
Lo studio permette inoltre di stimare in 1,6 milioni di km2 la superficie del garbage patch, ossia 5 volte l’Italia e tre volte più estesa di uno studio precedente. Ci sarebbero 1,8 trilliardi di pezzi plastica intrappolati nel vortice del Pacifico del Nord, di cui il 94% sono microplastiche. Esse rappresentano l’8% della massa totale, mentre le reti da pesca contribuiscono per il 46% e il restante della massa è rappresentato da altri attrezzi per la pesca, incluse corde, lanterne per le ostriche, trappole per anguille, cassette di plastica per il trasporto dei molluschi, secchielli.
Gli autori suggeriscono che l’incremento nella stima della massa di plastica presente nel vortice del Pacifico Nord sia dovuto in larga parte all’utilizzazione di metodi più robusti per quantificare la presenza di macro e megaplastiche su superfici più ampie rispetto agli studi precedenti. Tuttavia, concludono dicendo che l’inquinamento da plastica “sta aumentando in maniera esponenziale e più velocemente che nelle acque circostanti”.
Stefano Aliani, ricercatore presso il CNR ISMAR ed esperto di rifiuti marini, fa notare che “è difficile dire se negli anni vi è stato un vero aumento, oppure se questa percezione viene da un maggior sforzo di campionamento rispetto al passato, da un cambiamento delle dinamiche del vortice oceanico dovuto d eventi come El Niño, oppure allo tsunami del Giappone del 2011 che ha sparso rifiuti in tutto il Pacifico”. Lo studio stima infatti che tra il 10 e il 20% della massa dei rifiuti che si trovano intrappolati nel vortice provengono dallo tsunami del Giappone del 2011.
Enrico Zambianchi, professore di oceanografia fisica all’Università Parthenope di Napoli ed esperto di processi di dispersione nell’oceano, raggiunto via email osserva che il campionamento è molto completo e il modello oceanico usato per stimare la dispersione dei frammenti plastici nell’oceano Pacifico è ben costruito e su basi solide, ma fa notare che trarre conclusioni dai modelli matematici è un’operazione da fare sempre con cautela. Il ricercatore nota inoltre che l’aspetto più interessante del lavoro è la discrepanza tra le previsioni del modello di quanta plastica avrebbe dovuto essere intrappolata nel vortice e la quantità che è stata invece effettivamente trovata.
Dove sono i milioni di plastica che mancano all’appello?
Gli autori dello studio notano, infatti, che basandosi sulle stime correntemente accettate dalla comunità scientifica sugli input di plastica nell’oceano a partire da fonti di origine terrestre e di origine marina, il loro modello prevede che ogni anno entrino negli oceani del mondo tra i 5,93 e i 19,3 milioni di tonnellate di plastica. Anche nel vortice del Pacifico Nord, proseguono gli autori, avrebbero dovuto esserci milioni di tonnellate di plastica, mentre loro ne hanno trovate solo 79.000 tonnellate.
La differenza di due ordini di grandezza, proseguono gli autori, suggerisce che esistano dei meccanismi che rimuovono la plastica dalla superficie dell’oceano e/o che frammentino la plastica in particelle di dimensioni inferiori a quelle prese in considerazione dello studio (< 0.05 cm). I polimeri plastici galleggianti rappresentano circa il 60% della produzione di plastica, quindi circa la metà di tutta la plastica che arriva nell’oceano probabilmente affonda e va ad accumularsi nei sedimenti e nei canyon sottomarini. Il resto dei rifiuti plastici che invece hanno una densità che li farebbe galleggiare, ma che non sono stati ritrovati, rimane probabilmente intrappolato lungo le coste, oppure è ingerito dagli organismi marini o è rimosso esso stesso dalla superficie degli oceani a causa della perdita di galleggiabilità dovuta al biofouling e all’aggregazione.
Gli autori notano inoltre che nei loro campioni la maggior parte della massa totale dei rifiuti sono reti (46%) e altri attrezzi per la pesca, mentre i rifiuti di origine terrestre sono poco rappresentati, nonostante si ritenga che questi rappresentino dal 60 all’80% del totale dei rifiuti plastici. La sovra rappresentazione di rifiuti di origine marina, proseguono, potrebbe essere dovuta al fatto che questi prodotti sono creati per resistere specificatamente alle condizioni marine.
Non confondere il sintomo con le cause
In contemporanea con la pubblicazione dell’articolo scientifico su Scientific Reports sull’isola di plastica, in Gran Bretagna è stato pubblicato il rapporto Foresight Future of the Sea secondo il quale l’inquinamento da plastica negli oceani potrebbe triplicare da qui al 2050 a meno che non sia messa in atto “una risposta di grandi dimensioni” per evitare che la plastica arrivi negli oceani. Secondo questo rapporto, l’inquinamento da plastica è uno dei pericoli ambientali più gravi per il mare, assieme all’aumento del livello del mare e all’aumento delle temperature delle acque.
Stefano Aliani ritiene che per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica è necessario focalizzarsi su aspetti dell’economia circolare, creando percorsi virtuosi che mettano in atto una gestione intelligente della plastica e riducano gli sprechi.
Secondo il ricercatore “Pensare di pulire il mare non è sostenibile”, e mette in guardia dal non confondere il sintomo, la plastica nell’oceano, con il problema, un cattivo utilizzo della plastica e un’inadeguata gestione dei rifiuti prodotti: “Per svuotare una vasca da bagno dove il livello dell’acqua è in continuo aumento, la prima cosa da fare non è andare a cercare un secchio più grande. La prima cosa da fare è chiudere il rubinetto”.

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