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Intervista a Veronica Zucchi : L'abito di scena

Gli abiti di scena, nell’armadio, strabordano e nascondono quelli della scena quotidiana, a volte confondendosi. Il tulle dell’abito di Euridice, le perline di quello di Ofelia, i brillantini di quello di Justine mi trasbordano in una vaghezza esistenziale simile al sogno, in un territorio limbico della presenza/assenza dei personaggi.  Essi stanno, brulicano come spettri, fra una piega e una spallina, un orlo merlettato, un cappello, la parrucca dell’Ottocento e il corpetto per la Lulu di Wedekind, in attesa che li si riporti alla luce. Ti chiamano, si agitano, ti sorridono e talvolta ti soffocano. Così chiudo le ante. Così come “lo spettacolo deve continuare” anche la vita deve continuare. E i monologhi, che come  un leitmotiv ti rimbrottano in testa, possono essere dolci ninna nanne o improvvise  intrusioni nella realtà, quando la realtà li evoca. Essi sono lì, fantasmi pronti a ricordarti che le vite si sovrappongono, i gesti, le movenze, i tic, i lapsus, le compulsioni, le repulsioni, le emozioni.
Oh, ecco le scarpe! Cambiano proprio il modo di camminare, ricordo quelle rosse laccate che, da bambina, scuotendole un po’ sui tacchi, mi permettevano di entrare nel magico mondo del Mago di Oz. E il Carnevale  mi ha sempre messo un po’ a disagio, perché mi perdevo, diventavo, di volta in volta, quel personaggio, ma, da piccola, non ne capivo bene il perché. Mia zia Nene cuciva degli abiti bellissimi, per me e mio fratello Federico. Mi piaceva e mi piace perdermi, quando  ci si perde accadono cose che non prevedi. Amo rischiare: affrontare un personaggio senza correre il rischio di perdersi è come guardarlo attraverso un vetro insonorizzato, non lo si riuscirà mai a toccare o udire.
Il tuo rapporto con il teatro?
Già affascinata dal teatro da bambina, e poi da adolescente, il mio incontro con la concretezza del teatro è avvenuto per caso, quando ho “marinato” una lezione di teologia e mi sono ritrovata, passeggiando, in uno scantinato, dove alcuni attori si esercitavano, passandosi l’un l’altro una pallina luminescente. Sono stata coinvolta nel gioco, e mi è piaciuto. Dopo l’Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine, mi sono trasferita a Roma, dove da dieci anni lavoro con il poeta, drammaturgo e regista Luca Archibugi. Da sempre, condividiamo lo stesso modo di pensare e di fare teatro: la necessità della rivisitazione del mito, la messa in scena come partitura, la musica come eros, la digressione e l’ossessione per ciò che sarebbe potuto accadere (e non è accaduto)  come – usando una perspicua analisi di Giovanna Zucconi – “platonismo delle circostanze”, la sospensione e la redenzione come memoria e oblio. Insieme, nel corso del tempo, abbiamo affrontato diversi spettacoli e letture.
E con il cinema?
Recentemente ho preso parte, con un piccolo ruolo, al film d’esordio di Filippo Bologna, Cosa fai a capodanno?. Esce al cinema il 15 Novembre. Da vedere! Esilarante (anche)! Prima ho lavorato con Paolo Sorrentino ne La grande bellezza, in Youth (un’esperienza che mi ha insegnato molto) e  nel corto per Campari Killer in red (Campari Red Diaries 2017). Amo il cinema, spero di ottenere un ruolo importante, che mi consenta di esprimermi al meglio. Magari a fianco di Jack Nicholson! (Ride).
Com’è stato il tuo incontro con Roma?
Il mio incontro con Roma, nel 2001, è stato violento e impetuoso, passavo da una festa all’altra, da un Martini a una Lucky Strike – mi divertivo anche – da un incontro sbagliato ad un altro, da un treno ad un altro, facevo la modella e la hostess. In questo periodo ho fatto diversi servizi fotografici, due cortometraggi, ho incontrato numerosi produttori, mi hanno chiamato a fare un provino per Play Boy (avevo finito i soldi) che andò male perché mi presentai in condizioni non proprio ottimali sia fisicamente (ero molto dimagrita) che psichicamente (non c’ero, semplicemente, anche se non esserci non era una brutta sensazione; tuttavia in me si alternavano stati di estrema felicità ad altri di profonda tristezza che mi stavano –  e non metaforicamente – uccidendo). Mi sentivo, al contempo, fragile e molto forte (essere fragili non vuol dire essere stupidi, o ingenui). Il mio corpo e la mia anima erano come in frammenti. Sì, la sensazione era quella di non avere più né un corpo né un’anima. E ogni giorno ricominciava la recita: trucco, abito, scarpe, sorridere, sorridere, sorridere, leggerezza, leggerezza, ironia, perspicuità. “La vita è breve comunque, cerca di dare agli altri tutto il tuo meglio”. Credo tutt’ora che sia giusto dare il meglio. Ho sempre sognato la bellezza ad occhi aperti.
All’inizio è stato divertente, poi ad un certo punto e di punto in bianco ho deciso di frenare, mi sono detta “Veronica, sei tu a guidare l’auto, non l’auto te”.  Ho spinto sul freno con tutta la forza che potevo.
E poi?
Mi sono fermata, ho chiuso le luci della “giostra” per un po’. Avevo bisogno di riflettere.
Qual è il tuo rapporto con la seduzione?
Spontaneo, naturale, esigente, mentale, ironico soprattutto. Per me l’eros è un gioco, una musica, e la seduzione è la partitura.
Qual è il tuo motto?
Ed ora, il trucco!

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