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Immagini in movimento, la macchina da presa come pennello. Il cinema visionario di Bernardo Bertolucci

Immagini in movimento dense di sensibilità e inquietudine artistica. La macchina da presa come pennello e ogni inquadratura come scavo e interrogazione introspettiva. Esplorare il cinema di Bernardo Bertolucci, nato a Parma nel 1941 e morto a Roma nel 2018, significa viaggiare dentro il Novecento e la centralità del grande schermo, nel segno di un linguaggio filmico in osmosi con la pittura, la psicoanalisi, la politica, la poesia e la letteratura.

E, ancora, la Storia, le masse e i sottili moti interiori degli individui, i kolossal e il melodramma, le bandiere rosse e le case come proiezione di un’interiorità tormentata, la Francia e la Cina, le rivoluzioni realizzate e quelle fallite, Francis Bacon, Pelizza da Volpedo e il buddismo.

Un viaggio tra eros e thanatos grazie alla capacità di creare e rielaborare un’idea del cinema e del mondo in chiave personale ma sempre in rapporto con maestri e modelli da tradire o da fronteggiare. Un taglio stilistico che è maturato all’interno della tradizione d’autore, alternando le grandi produzioni e i piccoli progetti, i premi Oscar, gli scandali e le condanne, le riabilitazioni e le consacrazioni, compresi il Leone d’oro e la Palma d’oro alla carriera.

Lo scorso 16 marzo la sua Parma lo ha celebrato, nel giorno del compleanno, in una serata dal titolo “Io e te”. Evocare il cammino artistico ed esistenziale di Bernardo Bertolucci significa lambire, in una carrellata incalzante, personalità come il padre, il poeta Attilio BertolucciPier Paolo PasoliniAlberto MoraviaJean-Luc Godard con la Nouvelle VagueAdriana Asti, il fratello Giuseppe (anche lui regista di valore), il maestro della luce Vittorio Storaro, lo sceneggiatore e montatore Kim Arcalli, compositori come Morricone e Sakamoto, gli sceneggiatori e registi Clare (sposata nel 1978) e Mark Peploe e, infine, Niccolò Ammaniti. Non si possono nemmeno dimenticare attori come Pierre Clémenti, Alida Valli, Giulio Brogi, Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli, Dominique Sanda, Marlon Brando, Maria Schneider, Burt Lancaster, Robert De Niro, Gerard Depardieu, Laura Betti, Romolo Valli, Ugo Tognazzi, Anouk Aimée, Peter O’Toole, Keanu Reeves, Jeremy Irons, Liv Tyler, Eva GreenPippo Delbono, ognuno di loro legato a un tassello significativo e in alcuni casi memorabile.

In risalto un’idea di cinema che trae origine dal tentativo fantasmatico di riproduzione della freudiana scena primaria. Così la sensualità delle scene è figlia di una composizione dell’immagine che vede carrelli, dolly, panoramiche e primi piani come rimandi profondi all’inconscio e ai nodi irrisolti della natura umana.

Nell’interessante “Dossier Bertolucci”, a cura di Paolo Bertetto e Franco Prono, per il quadrimestrale “La Valle dell’Eden” del 2002, realizzato in occasione del conferimento della laurea Honoris Causa al Dams di Torino, il punto di partenza critico è la sua abilità nel coniugare “lo sperimentalismo linguistico dell’avanguardia europea degli anni ’60 con i modi di produzione americani”. Bertetto rileva che a caratterizzarlo è “un progetto totale, in cui l’invenzione continua della messa in scena e del modo di fare cinema si fonde con l’immaginario soggettivo e con la stessa esistenza individuale”. Il tutto in una continua investigazione sul tempo “perché il cinema parla sempre del tempo”, come ricordava lo stesso cineasta citando Cocteau,e attraversando “idee e modelli differenti di cinema” in uno stile “coerente e personale di figurazione”.

Da qui la necessità di rivedere i suoi film, cogliendone sempre nuovi dettagli e sfumature, girati dal 1962 al 2012. In ogni fotogramma si cela un segreto e una nuova ipotesi di lettura: “La commare secca”, “Prima della rivoluzione”, “Partner”, “Amore e rabbia” (episodio “Agonia”), “Il conformista”, “Strategia del ragno”, “Ultimo tango a Parigi”, “Novecento”, “La luna”, “La tragedia di un uomo ridicolo”, “L’ultimo imperatore”, “Il tè nel deserto”, “Piccolo Buddha”, “Io ballo da sola”, “L’assedio”, “The Dreamers – I sognatori” e “Io e te”. 

Un’intervista con Luciana Sica (la Repubblica, 28 settembre 2006), in occasione del Premio Musatti, conferma quanto il regista abbia fatto della sua adesione alla psicoanalisi, in qualità di paziente, una scelta di vita, intrecciata in modo indissolubile con il sorgere di idee e spunti creativi. In quel colloquio, Bertolucci giudicava il suo cinema degli inizi “molto chiuso, un po’ punitivo, rigoroso come allora si diceva, proprio un cinema duro e puro che quasi non teneva conto del pubblico. Con l’analisi ho cominciato ad aprirmi io e si è aperto anche il mio cinema, sono passato da un continuo monologo a un dialogo con l’analista e con gli altri: le due cose sono andate di pari passo”.

Di conseguenza, occorre immergersi nel suo mondo filmico, scoprendo titoli meno noti come “L’assedio” (1998), e attingendo alla fonte di un’ispirazione come reinvenzione e continuo confronto con la dimensione onirica. Un approccio che mescola visioni personali e coscienza politica. Come osserva lo studioso Fabien Gerard, in un saggio ripreso dal blog del Centro Studi “Pier Paolo Pasolini” di Casarsa della Delizia, l’incontro con gli spettatori, nella carriera di Bertolucci, coincide con il desiderio di aprire loro “poeticamente gli occhi sulle realtà del suo tempo”. In ogni caso, intimità e dialettica individuo/collettivo non resisterebbero al logoramento degli anni se non fossero alimentati da una capacità figurativa che unisce pittura e linguaggio visivo. Da questa poetica filmica bisogna ripartire per analizzare in profondità la sua opera.

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