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Ieri, oggi e domani: conversazione con Piero Lissoni

Ieri, oggi e domani: conversazione con Piero Lissoni

Piero Lissoni ha disegnato di tutto: dagli yacht alle macchine per caffè. Senza prendersi mai troppo sul serio. Perché, dice: «tanto non cambi la vita a nessuno».

Piero Lissoni se ne inventa una alla settimana: da poco è art director di B&B Italia, dunque un altro prestigioso incarico per l’architetto e designer milanese che ha disegnato di tutto, dagli yacht alle macchine per il caffè, sempre senza prendersi mai troppo sul serio. Anche una scatola di panettone, adesso. «Più milanese di così», dice. «Ho disegnato lo skyline di Milano visto da un architetto. C’è tutto: il Duomo, la Velasca, anche alcuni grattacieli nuovi, tranne quelli brutti». E quali sarebbero quelli brutti? «Be’, la torre di César Pelli. Con quel tortiglione sopra. Andrebbe bene in Texas, a Houston, ma a Milano, su. Ho sempre pensato che abbia riciclato un vecchio progetto, nelle parti più panoramiche ci ha messo le scale di sicurezza, c’è qualcosa che non torna». Per il resto in Milano ci crede, «un po’ pesta, ma ce la farà anche questa volta. C’è voglia di ripartire».

Piero Lissoni a otto anni. Nato a Seregno (MB), si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano nel 1985. L’anno successivo ha fondato lo studio interdisciplinare Lissoni Associati. Ritratto courtesy Piero Lisso

Milano e i suoi fantasmi: grandi nomi del passato, i Castiglioni, i Magistretti. Alcuni di questi Lissoni li ha frequentati e goduti. E sembra averne ereditato pure un certo spirito: Milano non è famosa per l’ironia, invece dovrebbe, e anche il mondo del design, che spesso dà l’idea di una certa ingessatura, era popolato invece da fantastici personaggi. «Con Castiglioni andammo al Beaubourg, alla presenza del vice-presidente della Repubblica francese e del  sindaco di Parigi, per una grande mostra su Kartell; e a questa interminabile cerimonia di inaugurazione Achille voleva andare a fumare. Mi trascinò fuori, una volta, due volte, tre, quattro. Tutti ci guardavano malissimo. Mentre Magistretti, altro viaggio, a Glasgow, per la settimana del design italiano: con Alberto Alessi e Giorgetto Giugiaro. Vico aveva tutta una sua agenda di cose da fare, bucando molti degli appuntamenti ufficiali. Provare i kilt, le canne da pesca, i tweed per certe giacche che doveva farsi fare, e le cornamuse, perché secondo lui se non sapevi suonare la cornamusa non eri davvero stato in Scozia».

EDA-MAME

B&B Italia, 2018. Ispirata alla forma di un baccello di soia, una seduta che nasce dalla fusione di tre tipologie: sedia a schienale alto, poltroncina e pouf.

«Voglio tornare a fare mille riunioni dal vivo, a salire su aerei alle sette meno un quarto del mattino ritrovandomi stravolto in aeroporti inutili

Dai due, oltre all’ironia, ha preso l’idea che si può disegnare di tutto, «non c’è molta differenza tra una macchinetta per il caffè e una barca. Certo, non sono la stessa cosa, ma alla fine si tratta sempre di disegnare un’architettura, cioè la presenza dell’uomo nello spazio. Ora sono grato a Antonio Citterio di avermi dato questa opportunità in B&B», dice su Zoom, una forma di comunicazione che non gli piace per niente, «voglio tornare a fare mille riunioni dal vivo, voglio tornare a prendere aerei alle set- te meno un quarto al mattino ritrovandomi stravolto in aeroporti inutili, insomma, voglio tornare alla normalità», dice Lissoni, e per lui la normalità era coordinare uno staff di un centinaio di persone tra vari uffici sparsi per il mondo, soprattutto tra Milano e New York.

PINA

Alessi, 2006

Una caffettiera dal design minimale, dove gli elementi funzionali il beccuccio, l’impugnatura sono l’unica decorazione. E non serve altro.

Di sicuro non gli piace e non ne può più della retorica del Covid, con le trovate di molti suoi anche autorevoli colleghi. Città che improvvisamente diventeranno verdissime, riscoperta della campagna, abolizione dell’ufficio. «Mi sembra una visione da volpe e l’uva. Ho visto progetti assurdi fatti solo per avere interviste, goliardate come l’idea di costruire le famose paratie di plexiglas in spiaggia». «Anche il mito dell’abbandonare le città, dell’andare a vivere nei borghi, è una vera sciocchezza. Solamente un nerd americano può apprezzare lo smart working, va bene se non hai amici e se non hai una vita. Se fai un lavoro che si basa solo sulla finanza o sui numeri. Altrimenti hai bisogno delle città». E per queste povere città ormai simbolo e ricettacolo di malattia, cosa possiamo fare? «Poco. Le terremo più pulite, ecco. Useremo di più i mezzi pubblici: ma per il resto rimarrà tutto così com’è».

L16

Lualdi, 2012, Porta dallo spessore ridottissimo, quasi bidimensionale, un foglio di colore puro o di legno. Geometria che diventa un segno nello spazio.

Troppa teoria non fa per lui. Il mito molto milanese del designer come maestro di vita nemmeno. Meglio un sano realismo. «Il designer non ha niente da insegnare a nessuno», dice Lissoni. «Porti avanti il tuo lavoro di progettista con il massimo della correttezza, cerchi di farlo bene, ma non cambi la vita di nessuno. Un operaio che in fabbrica monta le mie sedie non è che avrà una vita migliore. Io non gli regalo la dignità perché le mie viti sono migliori. Se gli dico questa cosa giustamente mi prende a martellate. Invece c’è sempre stata un po’ questa mitologia: quando negli anni Settanta Enzo Mari lanciò l’autoproduzione, cioè i mobili da montare da sé, fu un progetto straordinario, e però non puoi prendertela se poi finirono per comprarlo solo ricchi collezionisti in gallerie d’arte francesi, non certo i poveri che invece sognavano piuttosto lussuosi arredi; e tra i mobili fatti di assi inchiodate già ci vivevano in mezzo tutto il giorno».

OMBRA

2019, Lema, Una forma fluida in propilene incastonata in una struttura metallica e lineare: gioco di contrasti per un oggetto che è disegno puro.

Lissoni è una specie di designer dal volto umano, i cliché non gli piacciono mica tanto. Confessa invidie: «Per tutti, passati e presenti: ah, gli Eames! Ah, Sottsass! Ah, gli scandinavi». Niente infanzie mitiche: «Anche all’università ero pessimo, io coi miei compagni di studio Giulio Cappellini e Rodolfo Dordoni eravamo un po’ dei perditempo, discutevamo di design, mentre attorno a noi tutti sembravano seriosissimi, appassionati di postmodernismo, di Aldo Rossi», maestro da cui ha imparato e che però non l’ha mai emozionato, pare di capire. E anche, sliding doors: Lissoni in un’altra vita avrebbe voluto fare il maestro di sci; «Già, è un bellissimo lavoro. Da ragazzo facevo l’assistente maestro. Aiutavo soprattutto con le classi di bambini. E avrei continuato volentieri. Mi piaceva tantissimo». Poi però non è finita così male. «Poteva andare peggio, ecco». Altri desideri reconditi? Magari la voglia, dopo aver disegnato tutto, di abitare in un universo anonimo, design-free? «A casa mia non ho proprio nulla disegnato da me. Non mi piacerebbe vivere in un catalogo Lissoni, ecco». Magari in un mondo tutto Ikea? Per carità. Non esageriamo. «Questo è un altro grande equivoco, quello del design democratico. Il volemose bene. Non è che se mi posso comprare un oggetto allora è democratico. Quando io disegno per i miei plutocrati seguo tutte le regole, i materiali giusti, i protocolli ambientali. Vai a vedere dove produce Ikea, in Bangladesh o in Vietnam. Oltretutto appropriandosi in maniera molto sistematica del disegno di tanti progettisti, in tutto il mondo, senza pagare un centesimo di diritti d’autore. Non è proprio democratico, tutto questo».

ONCE IN THE BLUE

2007, Flos, Felice punto d’incontro tra due tradizioni: quella orientale delle lampade in carta di riso e i progetti in resina “cocoon” degli anni ’60.

A casa, dunque, niente di suo né Ikea, ma design plutocratico, grandi maestri: «Le Corbu, Jacobsen… e quando mi ci siedo dico: ah, certo che anche voi li avete fatti belli scomodi, eh». Perché lei fa mobili scomodi. «Ma sì, scomodissimi. Ma tutti i designer, alla fine. Parafrasando Tolstoj, ogni mobile di design è scomodo a modo suo». Una certa scomodità sembra il prezzo da pagare alla bellezza. Perché altro mito da sfatare per Lissoni è il funzionalismo, la scuola tedesca, l’ornamento come delitto. E invece anche la funzione può essere altrettanto delittuosa. «Per anni ho collezionato gli oggetti che Dieter Rams disegnava per Braun, bellissimi. Bellissimi ma inutilizzabili». «O pensi al falso concetto di ergonomia, idea pseudoscientifica americana: derivazione di una moda anni Sessanta poi applicata pedissequamente, come se si potesse misurare tutto».

COMBINE

2018, Boffi. Un programma di cucina composto da elementi funzionali monoblocco combinabili tra loro. Come un gioco complesso con forme semplici.

«Ma sì, tutti i designer disegnano mobili scomodissimi. anzi, parafrasando Tolstoj: ogni mobile di design è scomodo a modo suo»

Oltre ai grandi maestri di scomoda bellezza, Lissoni si circonda poi di volumi di Topolino e Paperino, altra estetica che non ci si aspetterebbe da un primario designer milanese. Gira voce che chieda ai futuri designer del suo studio se conoscono l’universo Disney. «Certamente. Io passo tutta la mia vita in studio. E quindi non voglio stare tutto il tempo con dei nerd. A sapere chi ha disegnato il padiglione di Barcellona son capaci tutti. Bisogna essere in grado invece di sapere chi disegnava Paperino». Lui ovviamente lo sa. Ha anche un periodo preferito: «Quello degli inizi, Carl Barks, che gli ha dato quel disegno tondo, non spigoloso. Ma dopo di lui i più bravi sono stati gli italiani: Romano Scarpa, per esempio, uno dei più grandi interpreti di sempre. O Cavazzano, di una generazione più recente, bravissimo. Non a caso in tutto il mondo comprano la versione italiana». Insomma, dobbiamo aspettarci un Mickey Mouse disegnato da Lissoni? «No, no. Piuttosto, vorrei disegnare, dopo il panettone, dei marrons glacés, ecco».

Illustrazioni di Karin Kellner


Trovate il testo completo su AD Italia

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