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I Bitcoin piacciono anche alla mafia: così 'ndrangheta e camorra riciclano il denaro

Bankitalia ha acceso un faro sulla moneta virtuale: la utilizzano i clan per rimettere in circolazione i soldi sporchi. E abbiamo provato sul campo quanto sia facile far sparire denaro cash senza documenti

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Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra, non sarebbe mai saltato in mente di avventurarsi nella selva dei bitcoin. Era della vecchia scuola, diffidente per natura, prudente con le nuove tecnologie. Ma la mafia muta, si modella sulle forme sinuose della modernità. Così le potenzialità della moneta virtuale sono state colte da emissari di cosche eclettiche e intraprendenti, che si stanno misurando con la frontiera della criptomoneta, esplosa a fine anno con valutazioni stellari, in questi giorni caduta, ma comunque cresciuta enormemente rispetto a tre anni fa.
Investimento rischioso, certo, ma assai vantaggioso per scrostare il denaro dalle impurità del crimine. Insomma, tutti pazzi per i bitcoin. La tendenza del momento, che sta mandando in tilt le certezze di banche centrali e dei governi- alcuni dei quali hanno ipotizzato di vietarne l’uso, come in Sud Corea-. E che ha conquistato anche le cosche, attratte dalla promessa di anonimato e riservatezza che nessuna banca è più in grado di garantire.
Riciclare in bitcoin è una strada percorribile, già battuta da alcuni affiliati dei clan. Non i soli. In questo suk senza legge troviamo, per esempio, anche estorsori informatici: chiedono il pizzo (in bitcoin) in cambio della liberazione dei dati, ostaggi di quest’epoca, sequestrati e criptati nei computer da un virus appositamente istallato.
Un “criptopizzo”, ispirato all’antica disciplina brevettata dai mafiosi e applicata a Internet, tramutato in scena del crimine virtuale dove però i delitti commessi sono reali e le vittime in carne e ossa. L’Espresso ha indagato il lato oscuro della criptovaluta più famosa, frequentato da criminali di ogni risma, inclusi pedofili, truffatori. E mafiosi, appunto. Che già da due anni fanno shopping di bitcoin con l’obiettivo di ripulire il denaro sporco dei traffici di droga, di truffe, estorsioni e usura.
Nel 2015 un singolo bitcoin oscillava tra i 300 e i 500 euro, il 16 dicembre scorso ha toccato il picco massimo, 19 mila euro, ora oscilla tra gli 8 e i 10 mila. I più lungimiranti, quindi, se avessero acquistato due anni fa anche un solo bitcoin e lo avessero riconvertito sotto le feste natalizie avrebbero incassato quasi 20 mila euro netti. Tra chi ha investito in quel periodo c’èun gruppo di persone legate a camorra e ’ndrangheta. Proprio su questi si sono concentrati i sospetti dei detective dell’antiriciclaggio della Banca d’Italia. L’Unità informazione finanziaria – l’ufficio antiriciclaggio dell’istituto centrale – ha acceso un faro su numerose operazioni opache che riguardano transazioni di soldi inviati a società estere attive nella compravendita di bitcoin

Lo scambio euro-bitcoin può avvenire anche in contanti, eliminando qualunque rischio di lasciare tracce utili alle indagini. Un lavoretto pulito, basta solo trovare la persona giusta nella città più vicina. L’Espresso si è messo alla ricerca di questi professionisti. Alcuni broker sparsi tra Roma, Milano e Udine, ci hanno spiegato come fare per riciclare offrendoci il servizio più prezioso: l’anonimato.
«Buongiorno, vorrei cambiare mille euro in bitcoin». Troppo pochi, ci risponde “Gatto” sulla chat privata di Telegram. L’utente dal nickname felino è il nostro primo agente di cambio a cui lanciamo l’amo. Solo uno dei centinaia di sensali moderni della criptomoneta per eccellenza. Vive a Roma e di mestiere vende e compra soldi virtuali. «C’è una commissione del 5 per cento, accetto solo contanti, pezzi fino a 100 euro e passati sotto la mia macchinetta, lo scambio avviene in un luogo pubblico e il prezzo di cambio si fissa un’ora prima dell’appuntamento».
Le regole di ingaggio sono poche e semplici. Gatto soddisfa i nostri criteri di riservatezza. Innanzitutto bypassa il circuito bancario, asfissiato da normative antiriciclaggio. Niente bonifici bancari, né carte prepagate, con “Gatto” si tratta solo con valigette di cash. Insomma, il professionista che più si addice al nostro profilo da ipotetici narcos, padroni di piazze di spaccio alla ricerca disperata di un rifugio per i nostri quattrini sudici di cocaina. Noi, tuttavia, siamo finti trafficanti, ma i criminali veri e certificati non hanno certo perso tempo. Già da tre anni i clan di camorra hanno scommesso sul conio virtuale.
Operazioni sospette
Le recenti informative degli investigatori dell’Uif indicano con precisione le «segnalazioni di operazioni sospette» in cui compaiono i nomi di personaggi dal notevole pedigree criminale. In particolare uomini e donne vicini alla camorra napoletana. Clan di Napoli e alcuni della zona di Caserta, area sotto il dominio del famigerato clan dei Casalesi. Nell’elenco dell’Unità informazione finanziaria inviato ai diversi reparti investigativi si fa riferimento anche al doppio ruolo rivestito da alcuni di loro. C’è chi è uomo di camorra e allo stesso tempo si è distinto nel campo delle truffe su negozi di e-commerce.
Denari, sospetta ora Bankitalia, convertiti in bitcoin attraverso scambi autorizzati dalle società estere di trading. La camorra non è però la sola ad aver inviato esploratori sul lato oscuro della moneta virtuale. Già, perché tra i pionieri del criptoriciclaggio affiorano imprenditori e narco della ’ndrangheta, sui quali, però, sono in corso ulteriori riscontri. Tra questi ci sarebbero, per esempio, nomi legati alle cosche della piana di Gioia Tauro, espressioni della più moderna mafia calabrese. Le famiglie regnanti hanno competenza sul porto tra i più importanti del Mediterraneo, gestiscono società del gioco d’azzardo e hanno una spiccata attitudine al compromesso con le istituzioni. Nella nebulosa schiera di investitori compaiono persino sconosciute cooperative calabresi che si occupano di corsi di formazione e incassano soldi pubblici dalla Regione. Una di queste, hanno evidenziato i tecnici di Bankitalia, in un solo mese «trasferiva circa 200mila euro derivanti da finanziamenti pubblici a favore di società estere che si occupano tra l’altro di compravendita di valuta virtuale».
Insomma, più di un sospetto. Ma servono a ben poco le intercettazioni telefoniche, ancora meno i classici pedinamenti da film poliziesco. Le piste da seguire non conducono a numeri civici né a indirizzi specifici, l’inseguimento avviene nell’indefinito pianeta virtuale. Seguendo, per esempio, il flusso delle transazioni su Blockchain, l’infrastruttura alla base delle criptomonete che registra con codici ogni singolo scambio. Tuttavia è più facile dirlo che farlo. A ogni stringa, infatti, non corrisponde un nome ma un indirizzo Ip, e cioè l’etichetta numerica che identifica in maniera certa un dispositivo collegato alla rete internet. Certo, individuato l’Ip è possibile risalire al computer e al suo proprietario, che potrebbe, però, essere un semplice prestanome di gruppi criminali dotati di ragguardevoli capitali.
Francesco Taverna è il direttore tecnico principale della polizia postale, la massima autorità di intelligence per il contrasto dei delitti sul web. All’Espresso spiega uno dei modi per risalire ai proprietari dei portafogli, i wallet online, caricati di bitcoin. «Esistono dei metodi che permettono di raggruppare tutti gli indirizzi che afferiscono allo stesso wallet, alcuni di questi sono riconoscibili perché hanno un’etichetta. Una volta ottenuto il codice, si interroga la società per risalire a dati personali e ricondurlo alla persona». Non sempre, però, la persona individuata è il proprietario effettivo del patrimonio virtuale: spesso sono meri prestanome.
Niente documenti
E poi, altra variabile, su Blockchain scorrono milioni di scambi. Per analizzarli tutti serve uno sforzo investigativo immane. Anche perché chi ha grosse somme da riciclare le parcellizza attraverso complici, i quali versano piccole somme in cambio di bitcoin. «Non serve alcun documento», ci tranquillizza Bitto, un secondo broker agganciato su WhatsApp. Lui giura di farlo solo per passione, crede davvero al potenziale rivoluzionario del bitcoin. «Vendo solo in contanti, per un massimo di mille euro, non serve altro che un wallet e un pc, oppure uno smartphone». Increduli, insistiamo: «Nessun documento quindi?». La risposta placa la nostra ansia da anonimato: «È una compravendita tra privati, quindi non serve il documento d’identità».
Sebbene sia Gatto che Bitto risultino affidabili con decine di commenti positivi sul forum “Localbitcoin”, contattiamo anche At, mediatore per conto di un’agenzia di exchanges internazionale. «Possiamo concludere fuori Italia, Parigi o Svizzera, l’anonimato è garantito, è questo il servizio che offriamo», illustra At, che però ci avverte: «La questione fondamentale è non perdere tempo. Se state a Roma o Milano possiamo incontrarci, oppure in via preliminare, conoscerci via Skype, ma qui la regola è non parlare assolutamente di soldi. Questo è un mondo un po’ così». At non è preoccupato del torbido dei capitali, per lui è inaccettabile l’acquirente indeciso, «gente del cavolo, che non c’ha nemmeno i soldi». Una volta trasformato il denaro in moneta virtuale posso riconvertirlo in dollari, euro, rubli, dove più preferisco. In Svizzera, in Lussemburgo, in Spagna, a Malta, a Panama.
Insomma, il problema di trovare uno spallone che si occupi del trasporto del denaro oltre confine non c’è più per corrotti e mafiosi. Esistono infatti sparse per il mondo, anche in Italia, delle torrette simili a bancomat grazie alle quali è possibile scambiare all’istante bitcoin in moneta corrente. Nel 2015 i personaggi legati alla camorra napoletana monitorati dall’Uif hanno investito all’incirca un milione di euro. Oggi quello sporco malloppo di bitcoin, acquistati a poco meno di 500 euro cadauno, è diventato un’importante massa di milioni, dieci per la precisione, nel picco di valore massimo raggiunto a dicembre dalla moneta virtuale. In ogni caso, a prescindere dalle fluttuazioni, il capitale criminale di base è stato non solo ripulito e reso anonimo ma si è gonfiato notevolmente.
«Riciclare attraverso l’acquisto di bitcoin? È il fenomeno a cui stiamo assistendo. E non mi stupirei se che anche le organizzazioni mafiose lo stessero facendo», spiega Taverna, che aggiunge un dettaglio: «Il più delle volte avviene con la complicità degli exchanges, le società che cambiano valute correnti in virtuali». Il motivo di questa ambiguità sta nel fatto che queste holding offrono una gamma variegata di servizi finanziari anonimi. «Il problema è che spesso mischiano più bitcoin provenienti da più indirizzi Ip e permettono di convertirli con altre criptovalute. A quel punto le poche tracce svaniscono e risulta impossibile ricostruirne il tragitto. È un servizio che gli exchanges dichiarano lecito, tuttavia molte volte li rende complici di chi vuole ripulire il denaro sporco», osserva l’investigatore. Sembra incredibile, ma queste società non hanno alcun obbligo antiriciclaggio.
Lo scenario delineato da Taverna trova conferma nelle operazioni osservate dai detective: una decina di società estere, registrate tra Malta, Inghilterra, Panama e Europa dell’Est, hanno ricevuto negli ultimi tre anni una mole impressionante di denaro da personaggi con trascorsi giudiziari che vanno dalle truffe online, all’associazione mafiosa al riciclaggio. Profili che però non hanno suscitato alcuna reazione degli intermediari. Le segnalazioni infatti sono partite dall’Italia e solo perché la maggior parte di tali movimentazioni ha avuto origine da trasferimenti tramite carte prepagate. Dunque monitorate dagli istituti di credito. Tutti gli scambi cash sono rimasti fuori dai radar.
Oltre alla polizia postale, altri uffici investigativi stanno monitorando il fenomeno, come il Gat della Guardia di Finanza, che in un recente report ha sottolineato come la segretezza sia «una delle bandiere della criptovaluta, l’ideale per chi deve riciclare denaro. Uno Stato non può ordinare di segnalare le transazioni sospette, perché è una rete composta in gran parte da utenti anonimi». I mafiosi 4.0 ringraziano: «Baciamo le mani!».

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