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Danilo Mattei : Animie perse con Vittorio Gasmani

Danilo Mattei nel film in Anime Perse, un capolavoro del cinema italiano per molti aspetti sottovalutato, Danilo  Mattei  interpreta un ruolo magistrale, semplice ma per molti aspetti, accanto a lui un grande Vittorio Gassman,  correva l’anno 1970 quando Dino risi dirige questo  capolavoro finito nell’oblio del nostro cinema. In una celebre battuta Gasman dice: Venezia e’ una vecchia signora dall’alito cattivo. Un Danilo Mattei agli inzia della sua carriera fa da spalla al grande Gasman, una interpretazione quella di Mattei unica degna dei grandi attori di un tempo. ma “Anima Persa” non è soltanto un thriller psicologico, ma è anche una storia di formazione e di perdita dell’innocenza. È metafora di quel dolore che l’essere umano prova a causa della rassegnata consapevolezza di dover accettare l’inesorabile decorso del tempo e le devastanti conseguenze che esso produce. “Povere creature!”, dice Fabio Stolz al nipote mentre passano in motoscafo davanti al manicomio. “Colpevoli soltanto di non aver accettato il buon senso e le sue regole infami. Lo sai perché li tengono rinchiusi? Perché i pazzi, come i bambini, conoscono la verità. E la gente ha paura della verità”.

LA TRAMA

Tino Zanetti va ad abitare temporaneamente a casa degli zii Fabio ed Elisa a Venezia per frequentare una scuola d’arte. Quasi subito Tino si accorge che nella grande e antica casa, con zone ancora da ristrutturare, c’è qualcosa di strano: rumori provenienti dal piano di sopra di cui nessuno vuole spiegare la ragione, qualcuno che suona il pianoforte di notte e soprattutto il comportamento degli zii con il loro strano e distante rapporto. Dopo varie insistenze, Elisa, confessa al nipote che nella zona superiore della casa vive il fratello di Fabio, alienato mentale, che vive nella più bieca disperazione: l’uomo si sente responsabile della tragica morte di Beba, primogenita di Elisa, morta oramai da molto tempo all’età di dieci anni. Tino è sconvolto dalla notizia; al di là della confidenza della zia, il ragazzo non riesce mai a vedere l’uomo, che sembra essere invisibile. Non riesce nemmeno a rintracciare la tomba della piccola Beba. Solo al termine – quando, in un confronto con Tino nella soffitta, Fabio chiama a gran voce il nome “Beba” e si presenta Elisa, vestita in abiti infantili – Tino capisce che il fratello di Fabio non esiste e che l’alienato che suona il pianoforte altri non è che Fabio stesso, l’ingegnere, il professore e l’innamorato di quella bambina, Beba, ovvero Elisa, ormai cresciuta e per lui morta. Tino abbandona la città e il ricordo degli zii.

Italian actor Vittorio Gassman handing a piece of paper to the Italian actor Danilo Mattei, between them actor Michele Capnist, in the film Anima persa. 1977 (Photo by Mondadori Portfolio via Getty Images)

Spesso le nostre vite, così come le nostre piccole vicende personali e private, attendono qualcuno, sopraggiunto dall’esterno e da una differente realtà. Hanno bisogno che egli le osservi e che scopra i loro segreti; un testimone che possa raccontarle e tramandarle, dando loro un senso e conferendo loro memoria.
E così è in “Anima Persa“!

Tino (Danilo Mattei), un giovane aspirante artista, abbandona la provincia per trasferirsi a Venezia dove desidera frequentare la scuola di pittura. Alloggerà presso gli zii Fabio ed Elisa Stolz in un antico palazzo ubicato su un canale.
Tino è ricevuto dalla zia Elisa (Chaterine Deneuve), una donna esile, fragile, dalla salute cagionevole e afflitta da emicranie. La zia accoglie il nipote con quella gioia con cui si apprezza una ventata d’aria fresca. Quando Tino domanda dello zio, Elisa gli spiega che Fabio è un ingegnere che lavora all’Azienda del Gas; uomo importante e ligio al dovere, spesso non è in casa per adempiere a tutti quegli impegni che la sua carica comporta. “Fabio cena quasi sempre fuori! Cene di lavoro con gente di riguardo, che viene anche dall’estero per parlargli”.
Dopo cena, la signora Stolz fa visitare l’antico palazzo al nipote. Ad eccezione delle poche stanze abitate da lei e dal marito, l’edificio cade in rovina e necessita di lavori radicali. Tino segue la zia nell’ala abbandonata, fra muri crepati, che hanno perduto gran parte del proprio intonaco, scavalcando calcinacci e materiali accatastati, abbandonati e ricoperti dalle ragnatele. Visita così un vecchio teatrino, dove la giovane zia era solita esibirsi quando era bambina, e scopre una porta dietro la quale si cela una scala che conduce alla soffitta.
“È una stanza chiusa”, gli spiega Elisa con gli occhi velati d’inquietudine e con la voce ansiosa. “Non salire mai questa scala! È legno marcio, può rompersi”.
Il giovane Tino apprende anche che gli zii dormono in camere separate.
“Lui la sera rientra tardi”, si giustifica la zia. “Io ho il sonno leggero e soffro di nervi; potrebbe svegliarmi”.

Ecco come in soli cinque minuti e una manciata di secondi, Dino Risi cala lo spettatore in un’atmosfera enigmatica, misteriosa, vagamente lugubre e claustrofobica. Con poche immagini, con alcuni scambi di battute e con un sapiente movimento della macchina da presa, il regista ci immerge negli occhi vergini del giovane Tino e, attraverso il suo sguardo, ci mostra la vita della famiglia Stolz. Fa crescere in noi, come nel personaggio, la curiosità di scoprire che cosa si cela dietro le parole, sì, ma soprattutto dietro i silenzi e gli sguardi della zia. Come se ci fosse qualcosa che si nasconde nelle ombre di quel vecchio palazzo in quell’antica città lagunare. Qualcosa che desidera essere visto, che desidera essere conosciuto.

Dopo questa prima presentazione si passa al necessario incontro con lo zio, l’ingegner Fabio Stolz (Vittorio Gassman). Tino si risveglia alla presenza austera dello zio. Uomo autoritario, dallo sguardo severo e dal temperamento altero ed intransigente. Un uomo di rigida moralità, così fiero della propria origine asburgica da definire la lingua tedesca come “Il dolce idioma di Goethe” e da sentenziare che “Se non ci fosse stata l’unità d’Italia, faremmo ancora parte dell’Europa civile”.

Fabio Stolz si rivela immediatamente un uomo di grande cultura, amante dell’arte, dotato di un forte autocontrollo. Un uomo sempre elegante, tanto nel vestire quanto nelle maniere, distinto e formalmente ineccepibile, ma intimamente sadico e crudele. Sua moglie gli è completamente sottomessa e gli ubbidisce come fosse una bambina, mentre egli si diverte ad umiliarla e a torturarla psicologicamente attraverso promesse che immediatamente vengono rimangiate ed elogi che si trasformano in offese degradanti.
Intanto Tino, solo parzialmente distratto dalle morbide e generose grazie di Lucia (Anicée Alvina), la bella modella che posa nuda per gli studenti della scuola di pittura, ode dei rumori provenire dalla soffitta. Forse dei passi, il sordo tonfo di oggetti che vengono spostati o gettati e poi, durante la notte, qualcuno che suona un pianoforte con grazia, ma con incertezza, quasi fosse un bambino.
La curiosità del giovane cresce, così come quella dello spettatore, ma anche qui, in meno di mezz’ora di pellicola, un nuovo segreto sarà rivelato.
Annetta (Ester Carloni), la vecchia governante, un giorno rimane sola in casa con Tino e decide di guidarlo in cima a quella scala proibita che conduce davanti alla porta della soffitta. Una porta di legno munita di uno spioncino. Là dietro, gli spiega l’anziana governante, vive segregato il fratello dell’ingegnere. Era un professore, specializzato in entomologia, che un giorno ha perso il lume della ragione. Fabio Stolz per non far morire il fratello in un manicomio, magari in un “letto di contenzione”, si è sempre occupato di lui, lavandolo, radendolo e procurandogli prostitute. Fabio è la sola persona che il professore sia disposto a vedere e da cui si lasci governare.

Più tardi la zio spiegherà al nipote la genesi della follia del fratello con queste parole: “… un giorno cominciò a temere che la faccia, la sua faccia, sì, gli scivolasse via, gli scendesse lungo il petto, fino ai piedi per poi perdersi sul pavimento […] non è altro che la paura di perdere la propria identità, la paura di perdere se stessi”.
Numerose volte, anche in compagnia della bella Lucia, Tino risale quelle scale, ormai non più proibite, per osservare il professore (ancora interpretato da Gassman) attraverso lo spioncino. Lo guarda dilettarsi con i suoi giocattoli, fra gatti neri e bambole antiche, avvolto in una vestaglia color porpora. Ascolta le sue risate sguaiate, volgari e lancinanti. Lo vede muovere oscenamente la lingua, tinta di un rosso sangue, o mangiare disgustosamente un’anguria, tagliata con un coltello con cui subito prima ha decapitato una bambola.
In questo film, ad ogni nuova rivelazione segue un nuovo mistero. Così all’interrogativo di che cosa abbia scatenato la follia nel geniale professore, seguono versioni contrastanti da cui nascono nuovi interrogativi. Dopo la presenza misteriosa che abita la soffitta, Tino si trova a dover fare i conti con un altro enigma che alberga nelle ombre di quel palazzo antico. Si tratta di Beba, i cui quaderni insieme con i suoi giocattoli e vestiti sono chiusi in nell’armadio di una stanza che si apre sul palcoscenico del vecchio teatrino, nell’ala abbandonata del palazzo. Beba è una bambina bionda di circa dieci anni. Forse è scomparsa, forse è morta. Ma che lei sia nascosta nel palazzo oppure non ci sia più, poco importa, perché la sua presenza ancora dimora in quella casa ed è la chiave di un mistero.
Ogni domanda ha una risposta.
“Tu ormai sai troppo, per non sapere tutto”, dice Fabio a Tino nel giorno del suo diciannovesimo compleanno.
Le ultime rivelazioni fatte dallo zio al nipote, spingono il giovane ad abbandonare Venezia, a lasciare Lucia e a rinunciare alla pittura.

Anima Persa” è un film molto importante nella carriera di Dino Risi, poiché segna l’abbandono, anche se solo temporaneo, della commedia ironica sul (mal)costume nazionale. Risi continuerà su questa strada nelle sue produzioni successive (“La Stanza del Vescovo” e “Fantasma d’Amore“) con risultati interessanti.
Come “Profumo di Donna“, anche “Anima Persa” si ispira liberamente ad un romanzo di Giovanni Arpino (il primo è tratto da “Il buio e il miele“, il secondo da “Un’anima persa“). La sceneggiatura è scritta a quattro mani dallo stesso Risi con Bernardino Zapponi. Quest’ultimo, che vanta una lunga collaborazione con Fellini (“Roma”, “I Clown”, “Satyricon”, “Il Casanova”, “La Città delle Donne“), ma anche con Mauro Bolognini, Alberto Sordi e con lo stesso Risi, si era già cimentato nella sceneggiatura di alcuni film che erano al confine fra il thriller e l’horror (“Tre Passi nel Delirio” e “Profondo Rosso“). Questa sua esperienza pregressa e riuscitissima è senz’altro stata di valido aiuto a Risi per passare dal genere della commedia a quello del thriller psicologico con venature gotiche, di cui la summa della loro collaborazione sarà “Fantasma d’Amore” (1981).

Il pretenzioso film “Irreversible” del presuntuoso Gaspar Noé (e ce ne vuole di presunzione per paragonarsi al Kubrick di “Arancia Meccanica“), si apre con una frase interessante: “Il tempo distrugge ogni cosa”!
Quasi trent’anni prima lo stesso concetto è enunciato e sviluppato in maniera assai più profonda in “Anima Persa“.
“Gli anni sono come una gomma che tutto cancella. Leggera, invisibile. Piano piano passa sugli occhi, sul naso, sulla bocca e rende tutto sfumato, incerto, confuso. Questa gomma la sento passare e ripassare ogni istante”.
Con queste parole Elisa Stolz cerca di spiegare la ragione del proprio malessere al nipote.
E il tempo ritorna ancora nella follia del professore, che segregato nella soffitta, si circonda di oggetti d’ogni genere fra cui anche macchine da presa, ma non sopporta gli orologi e non ne tollera il ticchettio.
Ed infine l’ambientazione stessa scelta da Risi, che ha voluto spostare l’azione da Torino (così com’è nel romanzo di Arpino) a Venezia. Una città antica, vetusta, che trasmette la memoria di un passato che forse non esiste più benché sia sempre presente fra quei canali e quei ponti.
“Venezia è una vecchia signora dall’alito cattivo”, spiega Fabio Stolz al nipote. Ma più che una vecchia signora, è una città logorata dal tempo, che, nonostante il trascorrere inarrestabile dei secoli, cerca di non perdere la propria identità, di mantenere un volto immutato, senza rughe né cancellature. È una città decadente, così come è decadente il palazzo degli Stolz; così come è decadente la loro stessa esistenza.
Venezia è anche la città del carnevale. Una città abituata ad indossare una maschera per celare la sua vera natura. Tutto ciò che alla luce del giorno appare in un modo, nel buio della notte diventa qualcos’altro, fin quando la luce dell’alba ritorna sulla laguna, spezzando ogni incantesimo.

Dino Risi ha saputo cogliere e sviluppare gli elementi del thriller, regalandoci un film carico di tensione e valorizzato da una delle più interessanti interpretazioni di Vittorio Gassman. È un film a tinte forti, torbido ed enigmatico, altamente metaforico. Tutta la pellicola è permeata da un violenza sottile, sottintesa, che striscia di sequenza in sequenza senza mai esplicitarsi a livello visivo. Una violenza psicologica assai lontana da quella palese e spesso grottesca che si trova generalmente nei thriller. Una violenza che si manifesta negli sguardi, nei cambiamenti della modulazione della voce, nella scelta delle inquadrature e naturalmente nelle sconcertanti rivelazioni di cui Tino diventa l’involontario testimone. Il regista, infatti, gioca con le luci e con le ombre, con la lucidità e la follia, immergendoci in una realtà dove niente è così semplice come appare.
Vi sono alcuni memorabili primi piani di Gassman, che viene inquadrato dal mento all’attaccatura dei capelli. Nel suo sguardo severo, penetrante e accusatore, nella sua bocca torta verso il basso, quasi in segno di disprezzo, la macchina da presa immortala questo eterno gioco luce-ombra, chiaro-scuro. La brama di vivere e l’odio verso la vita. Il desiderio di volersi raccontare, ma il fastidio di vedersi scoprire. Come se il testimone della nostra vita fosse sia colui che le dà valore e le conferisce il dono della memoria, sia un ladro che s’impossessa della nostra intimità. Un film di dualismi, dunque. Vecchiaia e giovinezza; innocenza e peccato; rigida moralità e scellerata follia; desiderio e perdizione; amore e distruzione. Tutto qui è doppio; non esiste una realtà senza il proprio opposto, come le famigerate due facce della stessa medaglia, come il classico tema letterario del doppelganger. Quasi una rielaborazione moderna del racconto gotico “William Wilson” di Edgar Allan Poe, pubblicato per la prima volta nel 1839 e già (mal)portato sullo schermo da Louis Malle nel sopraccitato “Tre Passi nel Delirio“.
Al tempo stesso, come già accennato all’inizio, questa è una storia che attende un testimone che la scopra e che possa raccontarla. Non vi sono segreti che desiderino restare tali. È una vita che vuole manifestarsi nella sua sconcertante interezza.

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