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Cosa ci dice quel vecchio mistero

Un libro racconta l’uccisione di Giorgiana Masi, quarant’anni fa. Tragedia di un’Italia lontana, ma lezione ancora da studiare

Cosa ci dice quel vecchio mistero

Ci sono libri che con semplicità descrivono così bene un momento storico da riuscire a essere una guida per interpretare i momenti di crisi, sempre.
Concetto Vecchio ha scritto “Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano” che è un vademecum sul nostro Paese perché spiega dinamiche di potere che dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi sono cambiate poco. Hanno perso sostanza negli anni, questo è innegabile, ma quelle categorie e le relative contrapposizioni sono spettri nei quali ancora, di tanto in tanto, ci imbattiamo. La tragedia della morte di Giorgiana Masi è una tragedia privata, politica e nazionale. Sul piano privato, e quindi familiare, racconta cosa abbia significato per i genitori di Giorgiana perdere una figlia all’improvviso, senza riuscire a farsene una ragione. Sul piano politico ha mostrato la rigidità degli apparati dello Stato che, dopo aver creato condizioni estreme, non sono stati pronti ad affrontarne le estreme conseguenze. E una tragedia nazionale perché siamo tutti Giorgiana Masi, ma non tanto per dire. Lo siamo tutti davvero. Molti di noi hanno partecipato a manifestazioni di piazza credendo di non correre alcun pericolo. Il morto in piazza è ingestibile, è un prezzo troppo alto e mette a rischio l’assetto democratico di un Paese. Perché porta con sé menzogne e sfiducia nelle istituzioni.
Giorgiana muore a Roma il 12 maggio del 1977. Aveva diciotto anni e a ucciderla è un colpo di pistola che a oggi non sappiamo chi abbia esploso, esattamente con quale arma e da dove. Un mistero italiano. Giorgiana aveva tentato di partecipare alla manifestazione organizzata in piazza Navona dai Radicali, per celebrare il terzo anniversario del referendum sul divorzio. Ma la manifestazione era stata vietata dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Non vi racconterò il libro di Concetto Vecchio perché spero che possiate leggerlo, ma vi dirò, invece, cosa mi è rimasto di questa indagine fatta 40 anni dopo, grazie agli atti giudiziari messi a disposizione da Luca Boneschi, che nel processo ha rappresentato la famiglia Masi e in fondo anche tutti noi.
Sono rimaste le ragioni e i torti di un momento politico delicatissimo in cui una manifestazione pacifica sarebbe stata la vera rivoluzione. Il divieto di manifestare opposto da Cossiga a Pannella quel 12 maggio veniva da lontano, Concetto Vecchio ne spiega la genesi senza giustificarne il ricorso. Ma è importante capire di quale Italia stiamo parlando. È importante fare la conta dei morti e dei feriti nelle manifestazioni di piazza, tra i manifestanti e le forze dell’ordine. È importante ricordare i morti in azioni di singoli o di gruppi ai danni di altri. È importante anche per rassicurare chi pensa di star vivendo oggi nel peggiore dei mondi possibili: non è così, non in Italia.
È importante studiare i percorsi politici per comprendere come ciò che accade sia la sommatoria di una serie di forze non tutte intellegibili. Concetto Vecchio dedica alcune pagine, interessantissime, alla figura di Cossiga: «Fa tutto velocemente, conta su una memoria prodigiosa, è pienamente concentrato sul suo dovere. Ma questa ascesa forsennata esige i suoi tributi. Viene tormentato dalla ciclotimia, a stati di grande euforia seguono periodi di lunga depressione. Fiaccato dall’astenia, è inseguito da malattie immaginarie, fobie». E allora appare chiaro, anzi direi lampante, che gli eventi storici e le decisioni politiche che li determinano, non sono prodotti solo da calcolo, ma anche da ciò che è imponderabile: dal privatissimo, chiamiamolo così. E mica è facile capire quando questo sta accadendo… è anzi impossibile. Marco Pannella, che ha usato finanche il suo corpo come terreno per la lotta politica, non ha mai fatto politica per tornaconto personale; anche chi è stato in disaccordo con lui, questo lo ha sempre riconosciuto. E tremano i polsi, ma tremano davvero, al pensiero che spesso a determinare tragedie non siano strategie studiate, ma calcolo personale quando non l’impossibilità di guardare oltre.
Enzo Striano, in un libro che considero un capolavoro, “I giochi degli eroi”, riporta, modificandola leggermente, questa frase di Nietzsche: «La sventura più grande nel destino degli uomini è quando i potenti della terra non sono anche i primi sulla terra. Allora tutto diventa falso, mostruoso, difforme».
Ci ho passato l’estate su questa frase e mi sono convinto che il tempo dei primi è solo utopia.
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