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Caro Di Maio, non abbiamo paura: continueremo a raccontare la verità

Il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, risponde agli attacchi del vicepremier, che ha evocato la chiusura del nostro quotidiano e il licenziamento dei giornalisti: “I nuovi potenti sono ossessionati dal nostro lavoro, ma non ci faremo spaventare”. Oggi in edicola due pagine speciali


Dopo aver ascoltato le parole di Luigi Di Maio con cui annunciava, sabato pomeriggio, che Repubblica e molti giornali di questo gruppo stanno morendo, ho pensato al telegramma che Mark Twain mandò all’Associated Press dopo aver saputo che era stato prematuramente diffuso il suo necrologio: “Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è fortemente esagerata”.

Certo, si fatica a prendere sul serio chi in una settimana ha annunciato di aver cancellato la povertà, per la prima volta nella storia, e poi ha scritto nel Def che non ci saranno più vittime della strada entro il 2050, tanto da farci cantare con Lucio Dalla, come ha fatto Ellekappa in una memorabile vignetta questa settimana, che presto “sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno…”.

Ma non è più tempo di scherzare o di scrollare la testa sconsolati. La campagna governativa contro i giornali, e contro Repubblica in particolare, sta diventando ogni giorno più ossessiva e più aggressiva.

Perché accade se, come scandisce Di Maio, “nessuno li legge più” questi giornali? Semplicemente perché non è vero. Oggi Repubblica è il secondo quotidiano nelle edicole italiane ma ha la leadership assoluta su Internet. Siamo il sito più letto in Italia, i nostri numeri non hanno paragoni in Europa (lo ha sottolineato solo una settimana fa il Reuters Institute, analizzando la rilevanza social di tuttele maggiori testate del continente).

E questo il Movimento 5 Stelle non lo digerisce, non sopporta che la voce più ascoltata e diffusa della rete sia critica con loro. Siamo “pericolosi” proprio perché Repubblica è leader in quello che considerano il loro territorio, la loro prateria.I nuovi potenti, ovunque nel mondo, si sono accorti che grazie alle tecnologie possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode. Basta vendere ai cittadini l’illusione della comunicazione diretta, presentata come la più grande delle conquiste democratiche. Non lo ha inventato Grillo, lo faceva già Obama, che inondava gli americani di post su Facebook, foto su Instagram, mail in cui ti chiamava per nome e tweet. Però non convocava mai una conferenza stampa. Poi è arrivato Trump e la comunicazione è diventata una clava da usare contro il giornalisti e chiunque non si presti alla sua rappresentazione.

Dalle nostre parti hanno appreso subito la lezione: niente domande e così le conferenze stampa diventano “Dichiarazioni alla stampa”, momenti di propaganda senza contraddittorio. Il modello è fintamente democratico, raccontano che finalmente il potente ti parla direttamente, si mette sul tuo piano, si rivolge proprio a te. Peccato che tu possa solo ascoltare, al massimo commentare o votare in un sondaggio istantaneo. Se poi i commenti o i voti non sono quelli desiderati spariscono in un attimo. E così tutto si svela per quello che è, un modello antico come il mondo: il potente al balcone e la massa dei sudditi (che osservano attraverso lo schermo del telefono) sotto. Chi disturba e insiste nel fare domande, nel mettere in evidenza contraddizioni, nello svelare errori e furbizie, deve essere messo fuori gioco. In fretta. Con qualunque mezzo.

L’attacco di Di Maio: “I giornali del ‘Gruppo L’Espresso’ stanno morendo perché alterano la realtà”

Il Movimento 5 Stelle doveva cancellare il finanziamento pubblico ai giornali, per anni lo hanno ripetuto, poi sono arrivati a Palazzo Chigi e come previsto hanno scoperto non c’era nulla da tagliare, perché i grandi giornali non prendono alcun contributo pubblico. Lo sapevano anche i grillini ma quella menzogna serviva a squalificare i giornalisti, a far credere che fossero a libro paga del governo.

A quel punto però hanno fatto un passo avanti e si sono chiesti: come possiamo provare a imbavagliarli? Come possiamo indebolirli, mandarli fuori strada?

Così hanno alzato il tiro e hanno cominciato a studiare i bilanci degli editori per capire dove intervenire. Prima hanno prospettato l’aumento dell’Iva per la stampa, poi hanno promesso di abrogare l’obbligo di pubblicazione dei bandi di gara per le pubbliche amministrazioni (non sono pagate con soldi pubblici ma dalle aziende che si aggiudicano le gare e viene fatto per dare pubblicità e trasparenza agli appalti), infine hanno preso di mira direttamente la pubblicità. Per farlo, prima hanno trasmesso l’idea che la pubblicità sia non più un modo per raggiungere i consumatori ma piuttosto un trucco delle aziende per comprare i giornalisti, dando agli annunci una connotazione immorale e negativa.

Anche sul blog di Grillo c’è la pubblicità, lo apro e ci trovo una compagnia di traghetti. Non mi viene neanche in mente che con quell’annuncio a pagamento stia cercando di conquistare la benevolenza del fondatore del Movimento. Lo fanno perché sanno che molti italiani leggono quel sito e allora è una buona occasione per vendere biglietti. Se ragionassi come loro però dovrei insinuare che forse quei soldi dati a Grillo servono a oliare qualche decisione che prima o poi andrà presa sulle concessioni marittime o sulle tasse. Ma se lo facessi sarei matto.

Resa immorale la pubblicità, Di Maio ha dichiarato di voler scrivere a tutte le aziende che hanno una partecipazione pubblica per imporgli di non fare pubblicità sui giornali. È evidente il ricatto a queste aziende: state attenti, noi abbiamo voce in capitolo nelle nomine dei vertici… pensateci bene prima di dare pubblicità a Repubblica e a chi è critico con il governo.

Il modello a cui ispirarsi viene dall’Est Europa, da quei paesi che tanto piacciono all’alleato Salvini. In Polonia, lo ha raccontato sulle nostre pagine Piotr Stasinski, vicedirettore del più illustre quotidiano di quel paese la Gazeta Wyborcza di Varsavia, il partito al governo ha imposto alle aziende a controllo statale di non comprare pubblicità sui media liberali e di opposizione, mettendoli in un angolo.

Così si fa terra bruciata. Il messaggio si espande a cerchi concentrici, perché tutti capiscano la nuova musica. Sei titolare di concessioni? Sei un’azienda che potrebbe dipendere da decisioni governative? Allora è più prudente che tu ti tenga lontano da quei giornali che a chi governa sono invisi.

È già successo in passato che grandi aziende togliessero la pubblicità a Repubblica per ritorsione contro inchieste o articoli scomodi. Ce ne siamo fatti una ragione e non ci siamo messi a piangere in pubblico. Non lo faremo nemmeno oggi, anche se il clima è già cambiato e cominciamo a sentire freddezza e titubanza in chi è cosciente che darci pubblicità potrebbe creargli problemi.

Vogliono mandarci fuori strada, lo dicono e ripetono ogni volta che ne hanno occasione, in pubblico e in privato. Con una costanza e una rabbia che non ha precedenti, nemmeno Berlusconi arrivò mai a tanto e Repubblica con lui era ben più dura e critica di quanto non sia con i grillini.

Attacco alla stampa, Di Maio: “I giornali ora non facciano le vittime”

Non abbiamo paura. Siamo preoccupati per noi e per il Paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica.

Se un ministro, in questo caso si tratta di quello dei Trasporti che si chiama Danilo Toninelli, scrive (ripeto: scrive, quindi si presume, che abbia per un attimo pensato alle sue azioni) sul blog delle Stelle, organo ufficiale del Movimento, che i Benetton “sono azionisti di punta” di Repubblica, viene da piangere. Perché è un falso clamoroso, non è mai stato vero né oggi né in passato. Ma a cosa serve sostenerlo? A sterilizzare qualunque critica al ministro. Gli elettori saranno autorizzati a pensare che questo giornale quando sottolinea che Toninelli ci ha messo cinquanta giorni per nominare un commissario (ripiegando sul sindaco di Genova, cosa che avrebbe potuto fare dopo una settimana) o che non ha idea da che parte si cominci, lo faccia perché glielo chiedono i suoi azionisti.

Non importa che Repubblica in questi due mesi non abbia fatto sconti ad Autostrade e ai Benetton, abbia fatto un grande e puntuale lavoro di denuncia e di inchiesta sulle responsabilità della strage, abbia chiesto a gran voce di non dimenticare Genova, le vittime, gli sfollati e tutti coloro che stanno pagando un prezzo altissimo dopo il crollo del ponte Morandi. Importa, con l’aiuto dei giornali di servizio, sporcare tutto questo e insinuare il falso.

Lo situazione del mercato dell’editoria aiuta questo lavoro di distruzione. In tutto l’Occidente si assiste al declino della carta stampata, ma anche alla moltiplicazione dei lettori.

Il problema è che il digitale non è profittevole quanto lo era la carta. Sono necessari nuovi modelli e la capacità di trasformarsi. Lo stiamo facendo con fatica e con coraggio, i numeri ci dicono che abbiamo imboccato la strada giusta, ma far quadrare i conti è faticoso. In questo gruppo e in questo giornale non sono all’ordine del giorno licenziamenti e nemmeno chiusure di redazioni, ma per il potente che vuole liberarsi dalle critiche e vorrebbe solo giornali servizievoli che battono le mani sotto il balcone, quale migliore occasione che infilarsi in questo passaggio storico per aumentare le difficoltà?

Ma qui torno alla domanda che mi ronza in testa, cosa c’era nel giornale di sabato di tanto indigesto da scatenare le ire di Di Maio?

Finora nulla di quello che abbiamo scritto è mai risultato falso, inventato o costruito ad arte. Possiamo aver sbagliato, e producendo centinaia di pezzi ogni giorno può accadere ma mai costruito dei falsi. Allora riprendo la copia di sabato e cerco di capire. Ci trovo la notizia, data in anteprima la sera di venerdì sul sito, che la Ue boccia il deficit al 2,4. Ci trovo la nostra inchiesta sulle opacità del concorso che diede la cattedra di professore universitario a Conte. Ci trovo la notizia, tenuta nascosta fino a quel momento, che la Germania ha deciso di rimandarci i profughi sbarcati in Italia con dei voli charter. Fanno con noi quello che il nostro governo non riesce a fare con i Paesi africani. Perché ci vorrebbe capacità diplomatica, ci vorrebbero accordi, invece il nostro ministro dell’Interno è troppo occupato a insultare qualcuno in qualche sagra della salsiccia. Ci trovo poi la rivelazione che nessuno ha ancora cominciato ad organizzare la Conferenza sulla Libia che si dovrebbe tenere a Palermo tra sole sei settimane. Cosa di tutto questo, o forse tutto questo insieme – nulla è stato minimamente smentito – è il motivo dell’attacco? O forse il nostro sottolineare le incongruenze nelle cifre annunciate per il reddito di cittadinanza o la grande confusione e approssimazione nel descrivere un provvedimento che ancora non è stato scritto.

Siamo un giornale di opposizione, è vero, come lo siamo stati durante i governi Berlusconi o come abbiamo criticato Renzi. Siamo antitetici alle idee di Salvini, allo sdoganamento di comportamenti fascisteggianti, alla continua caccia ai nemici di turno, siano essi gli immigrati o l’Europa, allo scadimento del dibattito pubblico, ridotto ormai a slogan di bassissimo livello. Per quanto riguarda i 5 Stelle ciò che ci spaventa è l’incompetenza. Non hanno idea di come si governi e delle conseguenze delle loro azioni.

Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non viviamo di stipendi pubblici (ci avete mai pensato che sia Di Maio sia Salvini non hanno mai avuto altra busta paga nella vita che non fosse quella fatta con i soldi delle nostre tasse?), ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano a Rep:. Se vi interessa continuare ad ascoltare un’altra campana, magari imperfetta e certi giorni irritante, continuate a farlo con convinzione. Molti lo stanno facendo in queste ore, mostrandoci una solidarietà commovente. Grazie di cuore.

Noi, lo ripeto, siamo preoccupati, ma non abbiamo paura. E non potremo che cercare di fare meglio.

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