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Buca, negato risarcimento a Roma: “C’era luce, poteva evitarla”

Le sentenze di primo e secondo grado sposano la linea del Comune. Parola alla Cassazione


Vietato cadere nelle buche di Roma. Perché il rischio non è solo quello di farsi male, o di morire se si è in sella a una moto, ma è quello di sentirsi accusare di essere stati “negligenti” e di dover pagare le spese legali al Comune di Roma e alla ditta appaltante della manutenzione stradale quando si intenta una causa. È quanto accaduto a una professoressa siciliana, ora 76enne che proprio questa mattina, dopo 12 anni spesi tra giudizi, sentenze e ricorsi al tribunale civile, attende la decisione della Cassazione che, col suo verdetto, potrà creare un precedente per i casi futuri.

Tutto comincia nel lontano maggio del 2006, quando la donna, alle 11 del mattino, cade in una buca in via Taro incrocio via Volsinio, quartiere Trieste. Chiama un’amica al telefono, non riesce a rialzarsi, ha un forte dolore alla gamba. Insieme vanno al pronto soccorso: niente di rotto ma una brutta caduta che la costringerà a una lunga riabilitazione. La professoressa decide di intentare una causa contro il Comune di Roma al tribunale civile, assistita dall’avvocato Alfredo Galasso. In primo grado, nel 2011, i giudici le danno torto. “Non esiste l’onore della prova sul nesso di causalità “, scrivono i magistrati. L’unica testimone portata in aula racconta infatti di essere arrivata e di averla trovata nella buca dolorante, non di averla vista cadere dentro.

Ma l’incredibile epilogo di questa storia arriva con la sentenza di Appello, nel 2015. I giudici del secondo grado sono in linea con il verdetto dei colleghi del primo: la donna ha torto e non va risarcita. Anzi è lei che deve pagare le spese legali per Roma Capitale e per la società Co.bit che era incaricata della manutenzione di quel tratto di strada urbana. Motivano così la loro sentenza: “L’incidente è avvenuto alle 11 di mattina in un giorno di maggio – si legge nel dispositivo – in condizioni di piena visibilità. La buca era di grandi dimensioni e dunque avvistabile da un pedone intento ad attraversare la strada con il minimo di diligenza a lui richiesto in base al principio di autoresponsabilità”. Il problema dunque non sono le voragini, ma la disattenzione di chi ci cade dentro. In fondo quello in cui è sprofondata la signora era un cratere, non un piccolo avvallamento del manto stradale. Impossibile caderci dentro. Che abbia dunque scelto di fare un tuffo nella buca in pieno maggio la professoressa ultrasettentenne?

Il legale della donna non si arrende e ricorre in Cassazione contro questo pronunciamento. E, come se non fosse già abbastanza surreale l’intera vicenda, l’attuale staff dell’avvocatura Capitolina guidata dalla sindaca Virginia Raggi, nel rigettare l’istanza presentata, sfiora il capolavoro giuridico. Parla addirittura di “comportamento incauto della danneggiata” e pertanto “non vi è responsabilità di Roma Capitale” perché “un utente ha l’obbligo di prudenza e diligenza in una strada pubblica”. Tradotto: la colpa dell’incidente è tutta della vittima. Perché quando si attraversa una strada non si deve fare attenzione alle auto che sfrecciano, ma si ha l’obbligo di far attenzione a dove si mettono i piedi.

In ogni caso, mette le mani avanti l’avvocatura capitolina nel controricorso presentato agli Ermellini, “nell’ipotesi in cui la Cassazione accogliesse il ricorso (della professoressa, ndr), Roma Capitale chiede di condannare l’impresa appaltatrice “al danno richiesto. Ovvero 5000 euro di danno fisico e 100mila di danno non patrimoniale”.
Oggi la Cassazione, a 12 anni dall’incidente, deciderà le sorti delle buche di Roma.

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