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Bari, morta a 51 anni l’artista Jolanda Spagnonava all’Accademia di Belle arti

E’ morta per una malattia. Era cresciuta artisticamente nella sua città, che aveva scelto di non lasciare. Ma il suo talento era di portata nazionale: fra le tante partecipazioni quella alla Biennale di Venezia


La cifra che la contraddistingueva come persona era la discrezione. Nel frastuono della vita intorno si muoveva con eleganza, evitando la competizione più urlata, la polemica tanto frequente pure nel mondo dell’arte. Leggerezza, eleganza, profondità e silenzio erano anche le qualità dei lavori di Jolanda Spagno.

Era, e duole davvero doverne dare notizia, perché Iolanda non c’è più. Ha combattuto, sempre con discrezione, la sua ultima battaglia contro il solito, troppo spesso invincibile male. Lasciando ora che a parlare di lei siano solo le sue opere, in gran parte di piccole dimensioni ma potenti, intime e silenziose ma capaci di entrare in empatia con l’osservatore ed emozionare.

Nata a Bari nel ’67, Spagno si era formata qui all’Accademia di Belle arti, che negli ultimi anni era tornata a frequentare per degli incarichi d’insegnamento. Tra gli artisti della sua generazione si era fatta notare molto presto sulla scena pugliese, nei primissimi anni 90. E pur avendo scelto di non lasciar la sua città, si era ben presto inserita in un circuito nazionale: seguita fin dagli esordi dalla galleria barese di Ninni Esposto e invitata più volte ad esporre da Rosalba Branà, direttrice del museo Pascali a Polignano, aveva partecipato a rassegne importanti come la XIV Quadriennale di Roma, la sezione Puglia del Padiglione Italia per la 54esima Biennale di Venezia, e molteplici mostre in spazi istituzionali e gallerie private, di recente anche in Cina.

Merito di una ricerca incentrata sull’amore per una tecnica antichissima come il disegno, da lei attualizzato senza rinunciare alla manualità. Una tecnica che Spagno praticava con perizia estrema utilizzando la grafite, con progressive cancellazioni, per tratteggiare paesaggi siderali, vedute artiche e soprattutto volti. Tutti rigorosamente impostati sulle sfumature del bianco/nero e sospesi in spazi di metafisica attesa. Dove la definizione referenziale di partenza è contraddetta dal rimando latente a dimensioni altre.

Jolanda Spagno era solita amplificare l’incertezza percettiva anche attraverso l’inserimento di lenti e specchi capaci di creare giochi di luci e ombre, simulare sdoppiamenti, ingrandimenti, distorsioni, riflessioni, capovolgimenti. In queste scatole ottiche di sua invenzione, come in tutta la sua produzione, riusciva a unire in un personalissimo mix rigore mentale e illusione ottica, scienza e sogno. E, lavorando sugli inganni della percezione, a trasmettere l’ambiguità e la fragilità del vivere. Sempre con profondità ma, appunto, anche con leggerezza.

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